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Analisi. La storia del Superbonus, una medicina diventata bubbone

Eugenio Fatigante lunedì 8 aprile 2024

Mai nome giornalistico fu più azzeccato: Superbonus lo è stato di fatto. “Super” soprattutto per gli effetti dirompenti avuti sui conti dello Stato: dalla stima iniziale di circa 35 miliardi si è passati a una valanga di 122, di cui è anche difficile prevedere gli effetti finali. Una sintesi efficace di questo scossone contabile l’ha fatta tempo fa Enrico Zanetti, uno dei massimi esperti della materia, oggi consigliere del ministro Giorgetti: «Il Superbonus è stato come una medicina: due aspirine ti rimettono al mondo, un flacone intero ti manda al Creatore».

Per il 110%, d’altronde, il vizio era nelle fondamenta. Già la cifra in sé, persino superiore al costo effettivo delle opere per una logica sfuggita ai più dotati di buon senso, era assurda. Il maxi-sgravio nasce 4 anni fa in piena pandemia, nel maggio 2020, col fine (di per sé anche nobile) di ridare slancio al settore dell’edilizia, paralizzato all’improvviso dal Covid. A Palazzo Chigi c’è Giuseppe Conte a capo del governo giallorosso (M5s-Pd), al Tesoro ad avallare tutto c’è Roberto Gualtieri, oggi sindaco di Roma, e per tutti “padre” della misura viene riconosciuto il sottosegretario Riccardo Fraccaro, all’epoca astro (prontamente declinato) grillino. Di quel peccato originale, tuttavia, Gualtieri stesso ha rifiutato tutte le colpe: «Se si fosse chiuso al 31 dicembre 2021, come previsto nella norma originaria, saremmo stati anche sotto lo stanziamento iniziale. Poi sono arrivate le proroghe, volute da tutti, anche da chi oggi sta al governo (Lega e Fi, ndr)», ha detto in un’intervista a Repubblica.

Tutto nasce da un decreto pomposamente chiamato “Rilancio”. È una novità assoluta per rifarsi casa senza spendere un euro (così la presentò Conte stesso), nel già variegato mondo dei bonus edilizi. Ma in quel primo atto si annida il germe del bubbone che scoppierà dopo: è buttato là, all’art. 121 in cui, in aggiunta alla nuova mega-detrazione, si aprono le porte come alternative agli strumenti innovativi dello sconto in fattura (anticipa tutto l’azienda che fa i lavori) e, soprattutto, della cessione di questi crediti d’imposta. È l’apertura di un vaso di Pandora, pieno di veleni: i crediti si possono cedere all’infinito, creando così una sorta di “moneta fiscale” parallela, e si applicano a tutti i bonus. In particolare a quello per le facciate e agli ecobonus, che si possono fare anche senza asseverazioni, i requisiti tecnici più stringenti. È da lì che arriveranno i guai maggiori. Il Pd rinuncia alla sua fama di severo custode dei conti e, per mantenere l’alleanza di governo, dice sì a tutte le richieste M5s. Il Parlamento, ingolosito, chiede sempre di più, estensioni sia delle platee interessate dal 110% sia del tempo necessario per usufruirne. Alla fine del 2021, con la manovra, ecco arrivare l’altro punto “scassa-conti”: la proroga del Superbonus, dapprima a giugno 2022, poi a fine ‘23..

I cantieri partono, la spinta positiva al settore edilizio e all’economia in genere c’è, in effetti. Accanto a essa, parte però anche un’espansione fuori controllo. Come prevedibile, spinti dal pretesto che “tanto paga lo Stato!” i costi degli interventi lievitano. Arrivano i primi dati sulle frodi e cominciano pure a scarseggiare le materie prime. A febbraio 2021, intanto, è cambiato il governo ed è arrivato Mario Draghi. È, in fondo, la pagina assieme più sublime e indicativa di tutta la storia. Dall’ex presidente Bce e dal suo ministro Franco (pure lui ex Bankitalia) ci si aspetterebbe il massimo rigore, ma davanti alle pretese dei partiti riuniti dal suo governo di unità (solo Fdi non ne fa parte) pure loro devono alzare bandiera bianca: fanno un tentativo per mettere un tetto di reddito al 110%, ma l’ipotesi salta. Draghi indica con nettezza il problema: «Sta nei meccanismi di cessione senza discrimine. Sono loro i colpevoli di questa situazione per cui migliaia d’imprese sono bloccate in attesa dei crediti», dice in Parlamento a giugno del 2022, dopo aver messo in campo il principale decreto (con dei limiti a partire dalla seconda cessione) fra i 15 interventi correttivi del meccanismo che saranno adottati dal suo esecutivo. Nessuno risolutivo, però, anche perché ormai i buoi sono già scappati dalle stalle

Cambia un altro governo. Arriva Meloni e la situazione si fa sempre più ingarbugliata. I soli crediti impantanati arrivano attorno all’astronomica cifra di 20 miliardi. Il centrodestra decide di bloccarli a febbraio 2023 ma, a sentire alcuni, proprio il blocco accresce i problemi, anziché facilitarli. E poi pure qui arrivano in Parlamento deroghe consistenti. E si litiga pure sul dare e avere: Conte e i 5s sostengono che il 70% dei costi della misura rientra con l’Iva e il gettito fiscale generato in aggiunta dalla maggiore attività edilizia. L’ex premier lo sbandiera in tv, con tan to di cartelli basati su dati Censis e Nomisma. È però un calcolo senza prove, confutato da chi dice invece che si confonde l’aumento del valore aggiuinto (quello che conta ai fini fiscali) con quello della produzione. Una storia molto italiana, insomma. Con tante verità, poche certezze e una domanda di fondo che resta, senza risposta: ma perché il 110% e non un “banale” 80-90% per cento che avrebbe creato molti meno problemi?