Attualità

La storia. «Il mio no ai ricatti delle cosche»

Antonio Maria Mira giovedì 29 gennaio 2015
«Denunciare è l’unica strada. Io l’ho fatto e penso sia stata la cosa giusta. L’avessi fatto prima...». Carla (non facciamo il suo vero nome), 56 anni, impiegata nell’ospedale di Correggio non ha cambiato idea per quella scelta di due anni fa quando una mattina decise di andare alla Guardia di Finanza per denunciare i suoi strozzini. Persone di Cutro, legate alla cosca ’ndraghetista Grande-Aracri, quella duramente colpita ieri. «Sono felice, la giustizia comincia a guardarci dentro. Penso che tante persone come me oggi hanno tirato un sospiro di sollievo». Lei caso più unico che raro, visto le poche denunce anche in Emilia.La sua è una storia drammaticamente normale. Che dimostra come tutti possano finire in mano alla violenza dei clan, non solo gli imprenditori o i commercianti. Perché le mafie non trascurano nulla, anche i "piccoli", secondo la filosofia del «poco ma da tutti». Usando la stessa mano pesante. Così anche a Carla erano arrivate telefonate violente. «Mi dicevano "guarda che se non fai quello che devi fare veniamo a casa e scanniamo tutti"». E questo per poche migliaia di euro poi diventati tanti, troppi. Tutto comincia cinque anni fa. «Avevo avuto dei problemi finanziari, non ce la facevo col mio lavoro. Inoltre mi ero da poco separata». E come succede sempre per l’usura, una persona amica ti indica una soluzione. «Ne parlai con una collega che consideravo come una sorella e lei mi disse che conosceva una signora disponibile ad aiutarmi. Era di Cutro ma non potevo immaginare che il marito fosse legato alla ’ndrangheta».Carla non lo sa, si fida. Pensa che in fondo quei 7mila euro li potrà saldare, anche se con gli interessi diventano 14mila. Ma poi... «Ogni volta che andavo a restituire loro aumentavano e poi non mi ridavano mai le cambiali che avevo firmato». Capisce di essere finita in un tunnel senza uscita. «Mi telefonavano continuamente, mi minacciavano. Ero disperata, non mangiavo più, non dormivo. Una sera di febbraio avevo preparato tutto per farla finita. Invece la mattina ho deciso di andare a denunciare alla Guardia di Finanza. Temevo che non mi ascoltassero. "Ma non è che poi voi non fate niente?". Invece ho trovato facce amiche e tanta collaborazione. La paura è rimasta, ma con qualcuno vicino il sacco diventa meno pesante». Così sono cominciate le intercettazioni telefoniche, i pedinamenti, le foto. «Ma vivevo ancora nel terrore. Fino al giorno fatidico quando sono andata a consegnare i soldi che i finanziari avevano fotocopiato. E sono scattati gli arresti».Ad aiutarla non solo i finanzieri. «Ho avuto accanto anche una bravissima dottoressa del centro di igiene mentale che mi ha messo in contatto con Libera. Grazie agli avvocati dell’associazione ho potuto seguire la denuncia e poi il processo». Che è finito con le condanne degli strozzini, fino a tre anni di carcere, compresa la collega falsa amica. «Bisogna stare attenti – è ora la sua riflessione – e non fidarsi anche delle persone di cui ci si fida...». Ma anche «a usare meglio i soldi, perché "loro" vanno dappertutto». E "loro" si capisce bene chi siano.Carla ha ripreso la sua vita. «Ero disperata e ora sono tranquilla. Anche se la paura ti resta. Ci sono tanti come "loro" ancora in giro». E poi non tutti hanno approvato la sua scelta. «Tante persone mi hanno detto "hai fatto bene", ma altre erano contro e non mi hanno più rivolto la parola». Emiliani come lei. Ma non cambia idea. «Ho fatto la cosa giusta e non sono rimasta sola. Denunciare si può e si deve». Lei, piccola persona normale, lo ha fatto. Tanti imprenditori, invece, sono rimasti silenziosi o col clan hanno fatto affari.