Attualità

Ora a Roma. Papà Milad e Mahmet, insieme dalla Libia per curare una malattia congenita

Camillo Ripamonti lunedì 28 dicembre 2020

Milad e Mahmet uniti anche nella speranza

Caro direttore,
Natale è un evento di speranza che viene da lontano, dal cuore di Dio, e che richiama storie di uomini e donne in cammino, storie spesso non raccontate, non conosciute, bistrattate e liquidate sommariamente con un «non c’è posto».

Ma a volte raccontare certe storie significa cambiarne il finale o renderne meno faticoso il percorso. Così nel caso del bimbo di 7 anni colpito da una meningite e mai curato, arrivato su una barca a Lampedusa all’inizio di novembre con il suo papà dalla Tunisia. Più che la giustizia o il rispetto del diritto alle migliori cure, ha potuto il racconto fatto su "Avvenire" di una storia di vita cui spettava un percorso diverso, più umano. Affrontare la malattia o la disabilità di un figlio è prova estremamente dura, in un mondo non fatto a misura dei più vulnerabili. E sono diversi i casi di genitori rifugiati con figli malati alla ricerca disperata di risposte e di una speranza a cui aggrapparsi.

Tra loro c’è Milad che ogni giorno si prende cura di suo figlio Mahmet, un ragazzo di 13 anni che combatte la sua battaglia contro una malattia congenita non diagnosticata in Libia e che oggi rende la sua vita e quella del padre davvero difficili. Dopo un lungo peregrinare tra Libia, Tunisia e Giordania, Milad lascia il suo amato lavoro di maestro elementare a Tripoli, la moglie e gli altri sei figli e parte con il ragazzo in cerca di cure. I due arrivano qualche anno fa in Italia con un visto turistico.

Dormono dapprima in albergo, ma i soldi non bastano, le cure si presentano subito lunghe e cicliche. L’incontro con la "Casa di Kim", una struttura che accoglie genitori con bambini malati, è provvidenziale. Lì Milad e il figlio si sentono accolti, protetti, accompagnati. Grazie a dei volontari presentano domanda di asilo: le condizioni di Mahmet sono serie e in Libia il conflitto e sempre più cruento; tornare significherebbe una condanna a morte. Si vedono riconosciuta una protezione sussidiaria, possono restare in Italia.

Milad sa come ci si prende cura di Mahmet, lo ha imparato dal personale sanitario dell’Ospedale Bambino Gesù che lo segue con regolarità. La sedia a rotelle che è parte del corpo del figlio, le crisi da gestire, le procedure mediche da fare ogni giorno con regolarità e precisione richiedono tempo e manualità per evitare infezioni, ferite, complicanze che sarebbero fatali.

Oggi Mahmet e Milad sono accolti, in uno spazio reso idoneo per loro, da una comunità di ospitalità in un progetto gestito dal Centro Astalli in collaborazione con le suore di Sant’Anna a Roma. Milad ha provato a fare corsi di formazione e lavori saltuari, ma Mahmet ha bisogno continuo di cure e assistenza. Il padre non si arrende e fa tutto ciò che serve, che riesce, con un cuore diviso tra la malattia del figlio e una famiglia a Tripoli.

Milad è sette volte padre. Sa bene che un bambino che nasce è buona notizia, è dono per il mondo. Mahmet è un dono fragile, E Milad è padre, come Giuseppe, di questo figlio "speciale", con sentimenti contrastanti: la gioia di un amore che è dono quotidiano e la paura di non farcela. Lui è miracolo di Dio per questo figlio.

La storia di Milad e Mahmet ci dice che una comunità è viva se si lascia interrogare dal bisogno di fraternità, se è capace di accogliere anche la fatica di una malattia. E che per i rifugiati è necessario pensare progetti personali con solidarietà creativa e sostenibile per non lasciare indietro nessuno. Le sfide sono tante e le risposte non sempre immediate e a portata di mano.

Anche per questa storia è così: occorre fare spazio a un papà che porta in braccio suo figlio e mettersi nei panni di una mamma che dall’altra parte del mare spera e prega per suo figlio lontano. Proviamo insieme a scrivere un finale diverso anche per questa storia. Buon tempo di Natale!

Camillo Ripamonti è presidente del Centro Astalli, servizio dei gesuiti per i rifugiati