Attualità

Da Sturzo alle Fondazioni. Soldi e partiti, la lunga storia finora senza un lieto fine

Danilo Paolini venerdì 29 novembre 2019

In principio fu Tangentopoli. Non quella di Mani Pulite, considerata il discrimine temporale tra la prima Repubblica e la cosiddetta seconda, bensì una tangentopoli degli anni 50. L’Italia repubblicana era ai suoi primi vagiti quando, nel 1954, esplose il caso Ingic (Istituto nazionale gestione imposte di consumo): un intreccio tra l’istituto e diverse amministrazioni locali per l’aggiudicazione di appalti in cambio di presunte mazzette che sarebbero andate ad alimentare le casse di quasi tutti i partiti. Furono istruiti circa 50 procedimenti penali in altrettante sedi giudiziarie, gli indagati furono 1.183, i rinviati a giudizio 600. Tra i coinvolti c’erano numerosi parlamentari, ma per tutti Senato e Camera negarono l’autorizzazione a procedere. La vicenda si concluse oltre venti anni dopo senza neanche una condanna. Ma già nel 1958 una delle menti più lucide della politica, don Luigi Sturzo, allora senatore a vita nominato qualche anno prima dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, aveva capito che il finanziamento dei partiti rappresentava un grosso nodo da sciogliere. «Quando entrate e spese sono circondate dal segreto circa la loro provenienza e destinazione, la corruzione diventa impunita; manca la sanzione morale della pubblica opinione; manca quella legale del magistrato; si diffonde nel Paese il senso di sfiducia nel sistema parlamentare», disse tra l’altro Sturzo per illustrare il suo disegno di legge in 8 articoli (atto Senato 124, III legislatura) contenente «Disposizioni riguardanti i partiti politici e i candidati alle elezioni politiche e amministrative».

Ma quello sforzo di attuare l’articolo 49 della Costituzione sull’organizzazione dei partiti e, al contempo, di renderne trasparenti le casse rimase vano. Il primo tema è tuttora senza una disciplina organica di riferimento, essendo falliti anche i successivi tentativi di regolamentazione (Commissione Bozzi negli anni 80 e diverse proposte di legge). Il tema del finanziamento dei partiti, invece, è una costante della vita politica italiana dal 1974. Trascorsero infatti 16 anni (e almeno altri due casi eclatanti di finanziamento sottobanco ai partiti: quello legato al nome dall’ex ministro delle Finanze Trabucchi e il primo 'scandalo dei petroli', entrambi senza conseguenze penali) tra la propostadenuncia di Sturzo e la legge promossa dal democristiano Flaminio Piccoli che introduceva il finanziamento pubblico per i gruppi parlamentari e per l’attività elettorale. La normativa stanziava 45 miliardi di lire l’anno più altri 15 negli anni in cui si temevano le elezioni. Soldi che, tuttavia, non sono stati sufficienti a scongiurare l’esplosione della Tangentopoli propriamente detta. A partire dal febbraio del 1992 gli avvisi di garanzia per finanziamento illecito ai partiti, insieme a quelli per corruzione e concussione, presero a fioccare. In quel clima di indignazione collettiva arrivò il referendum del 1993, promosso dai radicali, per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti: i Sì vinsero a valanga, con oltre il 90%. Ma l’esito della consultazione popolare venne sostanzialmente neutralizzato nel dicembre dello stesso anno, con la legge 515 in materia di 'disciplina delle campagne elettorali' che introduceva i rimborsi elettorali. Rimborsi per modo di dire, perché ben presto – con ulteriori 'aggiustamenti' normativi – sganciati dalle somme effettivamente spese dalle forze politiche per affrontare le urne. Per dire: in occasione delle elezioni del 2001, i rimborsi vennero erogati per tutti i 5 anni della legislatura, raggiungendo la somma di 476 milioni di euro. Dieci volte di più che nella precedente legislatura, quella cominciata nel 1996.

Il resto, più che storia, è cronaca, segnata dall’ondata anti-casta e dall’ascesa del Movimento 5 stelle (alla quale, come abbiamo visto, i partiti 'tradizionali' hanno dato una buona mano): nel 2012 viene fissato un tetto ai rimborsi (91 milioni annui, ma per tutte le consultazioni elettorali) e l’anno dopo, con il governo Letta, ogni finanziamento pubblico ai partiti è eliminato. S’introducono i contributi volontari privati agevolati e la possibilità per i cittadini di destinare il 2 per mille dalla dichiarazione dei redditi alla forza politica preferita, con il vincolo della «democrazia interna» e dell’adozione di uno statuto.

Tali fonti si sono però rivelate fin qui poco generose. Così è esploso il numero delle Fondazioni politiche (come la renziana Open di cui raccontano le cronache giudiziarie di questi giorni) e dei 'pensatoi' collegati ai partiti o a correnti di partito, che spesso finiscono nel mirino delle procure perché sospettate di illecito finanziamento. E la storia continua.