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La storia di Simba. Il piccolo salvato in mare e ora accolto al Sermig di Torino

Nello Scavo lunedì 23 dicembre 2019

Svezzato nella paura dei guardiani con il bastone, il piccolo ivoriano partorito in un campo di prigionia non avrebbe potuto sapere che dopo il lamento sarebbe arrivato l’abbraccio dei soccorritori, e poi le amorose coccole dei volontari dell’Arsenale della Pace di Ernesto Olivero, dove il 25 dicembre abbraccerà il Bambinello.

Ad agosto sulla nave dei bambini, l’asilo nido più allegro e traballante del mondo, Simba a cui era stato dato quel soprannome come per fargli coraggio, piangeva e si stringeva forte alla mamma, quando il mare era cattivo e quando fuori si faceva scuro. Era abituato a stringerla forte ogni volta che i libici andavano a prenderla e gliela strappavano via. Anche per questo Simba aveva paura del buio.

Francesco Bellina

Quando non piangeva, non sorrideva. Come il cucciolo di leone del grande schermo, Simba ha dovuto superare perigli da togliere il sonno ai grandi. Certo che sulla Mare Jonio piangeva, ma non come piangono i bambini di quattro mesi. Due notti e tre giorni di fine agosto su un gommone insieme ad altri cento, nove dei quali caduti al largo della Libia e mai più riemersi. Per culla le braccia della madre, immersa nel mezzo del barcone in una latrina di escrementi, carburante e vomito.

Francesco Bellina

Quello che è accaduto, in Libia e nel Canale di Sicilia, Simba lo avrà già dimenticato. Ma chi lo ha preso in braccio strappandolo alla condanna degli abissi, non dimentica affatto che c’è un Erode per ogni Natale. Alcune volte con la divisa di una intoccabile milizia. Altre con la giacca scura e le mani pulite di un allibratore prestato alla burocrazia del potere.
Simba, che aveva paura anche di una carezza dall’uomo bianco, lui che si chetava solo con le insaziabili poppate dal seno materno, una sera ha dovuto comportarsi da uomo. Da solo, affidato a mani estranee, a volti sconosciuti. Simba, quella volta, ha finalmente smesso di piangere.
È stata la notte della vergogna. Quella in cui altri uomini, loro si senza vergogna, avevano deciso che no, loro non dovevano essere trasbordati in sicurezza durante il giorno. Loro, gli invasori con il pannolino, dovevano essere lanciati su una nave della Guardia costiera con il buio, mentre onde di oltre un metro sbatacchiavano la Mare Jonio contro la motovedetta, facendo rischiare la pelle a tutti gli altri ventuno "piccoli Simba" e ai soccorritori della Capitaneria, pronti a tuffarsi in acqua, nella possente tenaglia tra scafi di svariate tonnellate. Se davvero fossero stati costretti a buttarsi giù per recuperare un corpicino caduto nel vuoto, di quei valorosi non sarebbero rimaste che medaglie alla memoria. Eppure erano pronti, decisi a farlo. Perciò dalla nave di Mediterranea, alla fine dell’operazione, tutti hanno applaudito e ringraziato gli uomini della Guardia costiera.

Francesco Bellina

Per due volte sotto la luce del giorno le motovedette avevano trasferito acqua e vivande al vascello umanitario. Aspettavano, come tutti, l’autorizzazione a prendersi in carico le donne e i bambini. E come accade quando a decidere sono i deboli coi forti e forti coi deboli, il via libera arrivò nell’ora in cui i bimbi devono stare a nanna, tra le coccole, mica saltare da un vascello all’altro come i bambini perduti di Peter Pan.

Nel Natale del Signore la storia emblematica e provocatoria di chi cerca da noi un rifugio


Simba è nato in Libia a maggio. Dell’umanità peggiore sa già tutto. Ed è meglio non entrare nei dettagli di come sia venuto al mondo. La mamma, una ragazza ivoriana di neanche venticinque anni, un giorno dovrà raccontargli una storia da romanzo. Orfana di entrambi i genitori in Costa d’Avorio, la presero con sé i nonni paterni. Bisognava pensare ad accasarla, a darle un futuro quando i due vecchi non ci sarebbero più stati. Arrivò un uomo, avrà avuto 60 anni. Un anziano con un tetto di mattoni, qualche bestia, e nessuna moglie. Lei, l’orfanella che mai avrebbe avuto una dote da portare alle nozze, faceva al caso suo. A 11 anni l’ebbe in casa per istruirla alla matrimonio. Qualche anno dopo l’avrebbe presa in moglie. Alla prima occasione la bambina scappò dai nonni, che non la presero bene: "Torna da lui o sparisci per sempre". Sparì dal villaggio. Cameriera, schiava, cuoca, operaia. Insomma, qualsiasi cosa potesse darle un boccone da mangiare e qualche chilometro da guadagnare più a Nord. Sempre più lontano dalla sabbia su cui dardeggia un sole patrigno. Fino alla Libia, l’inferno senza uscita.

Quando Francesco Bellina inquadrava la scena, il fotoreporter a cui si devono le immagini che in tutto il mondo hanno mostrato fino a dove può spingersi la politica del livore, con un occhio componeva l’immagine e con l’altro tratteneva le lacrime più per la rabbia che per la vergogna. Fabrizio Gatti, lo skipper salito a bordo della Jonio e che si prese la responsabilità di passare uno ad uno i bambini alla motovedetta, ancora non si dà pace per il rischio che tutti furono costretti a correre.

Quella sera per lui fu come mettere al sicuro il Bambinello. "Pericolo? Io rido in faccia al pericolo!", sembrava dire Simba come il suo gemello leoncino dei cartoons. Quella volta non pianse. E a bordo tutti capirono che sulla nave dei bambini, il Natale era arrivato in anticipo. Salutarono Simba e gli altri ventuno con un moto spontaneo: "Hakuna Matata", dimenticare i guai del passato e guardare con speranza al futuro. Mercoledì 25 dicembre glielo diranno in italiano, la lingua che anche sua mamma gli sta insegnando: "Buon Natale".