Attualità

IL CAMBIO AL QUIRINALE. Sette anni sul Colle

Angelo Picariello giovedì 18 aprile 2013
​Almeno gli hanno risparmiato l’ultima amarezza. Almeno al passo di addio gli hanno evitato quelle offerte di ricandidatura che tanto lo hanno contrariato, avanzate a dispetto delle sue inequivocabili dichiarazioni in senso contrario, come per rifugiarsi in una mission impossible, per sfuggire ancora una volta agli appelli al dialogo, alla condivisione. Così l’"ultimo giorno" di Giorgio Napolitano è nel solco dell’intero settennato: prima l’incontro al Csm con il quale ha dovuto gestire il nodo più inestricabile, il rapporto fra politica e giustizia, che gli ha procurato il dolore più grande, la morte improvvisa del consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno di una «campagna violenta e irresponsabile» di cui era stato vittima a margine dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Poi, nel pomeriggio l’incontro con le parti sociali.L’uscita di scena quindi - altro che riproporsi - è nel suo stile di napoletano sui generis, animato più di freddezza anglossassone che di sangue caliente partenopeo. Migliorista e riformista nella lunga militanza nel Pci Giorgio "l’inglese" lascia il Quirinale dopo sette anni durissimi, al quale era arrivato - primo presidente comunista - sostenuto solo dal centrosinistra, con la stima anche degli avversari che si erano alla astenuti. «Tutto quello che avevo da dare l’ho dato», andava ripetendo nei giorni scorsi. «Sette anni al Colle bastano e avanzano e un bis non è stato pensato dai padri costituenti», convinto com’è che i sette anni - pensati per attraversare più legislature e resistere a diverse maggioranze - costituiscano un limite invalicabile. Da "ministro degli Esteri" del vecchio Pci si era ritagliato da tempo personali rapporti con gli Stati Uniti, ulteriormente rafforzati con la presidenza Obama. Le forti parole di stima del presidente americano in Italia per il G8 sono state il suggello di un rapporto preferenziale, che poi ha dispiegato in modo palese la sua efficacia in vari momenti in cui l’Italia è stata chiamata a fare la sua parte nella gestione delle crisi internazionali, e più che mai nel periodo delle rivolte nel Mediterraneo, quando Napolitano ha fatto da garante presso gli Usa nel tormentato sostegno Onu all’intervento in Libia, avviato per iniziativa della sola Francia.Un laico, non credente, in grado però di costruire un personale rapporto con papa Ratzinger e con la presidenza della Cei . Un legame consolidato nelle celebrazioni per i 150 anni dell’unità nazionale, nell’ambito delle quali Napolitano ha molto apprezzato il contributo venuto dalla Chiesa italiana nel rivisitare alla luce della storia le tormentate vicende della fase iniziale del processo unitario. Una ferita, in questo ambito, è stata però la drammatica conclusione del caso Eluana, con il decreto non firmato che poteva impedire l’epilogo.Altre amarezze nella campagna portata avanti, senza grandi risultati, per la dignità dei detenuti nelle carceri e in quella per valorizzare il ruolo delle donne. Con la beffa finale, per aver dovuto rispondere all’accusa di non aver indicato donne fra i dieci saggi incaricati di facilitare il compito al presidente incaricato che verrà. Ha fallito l’ultimo obiettivo, quello di dare un governo stabile a un Paese in grave difficoltà, impresa che gli era riuscita contro ogni previsione con il governo Monti. Ma non ha mancato fino all’ultimo di indicare un modello che la storia italiana ha già conosciuto. Quando ha lodato il «coraggio» di Berlinguer nell’aprirsi al compromesso storico del 1976, proponendolo come modello di larga intesa.Presidente della "moral suasion", esercitata anche oltre gli avanzamenti già sanciti dai suoi predecessori, ha potuto realizzare quello che viene considerato il suo capolavoro politico con la nascita del governo Monti, in virtù di un difficile equilibrio mantenuto con i due principali partiti fatto, anche di momenti difficili e incomprensioni, ma con un bilanciamento di scelte che alla fine tutti hanno potuto apprezzare. Napolitano, come annunciato, si dimetterà subito dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato per velocizzare l’iter della successione.