Attualità

Ucraina. La storia di Serheij che ha trovato rifugio in convento

Antonio Maria Mira giovedì 30 giugno 2022

Serheij, 41 anni, profugo ucraino del Donbass, e la sua famiglia. Abraham, 29 anni, profugo nigeriano, e la sua famiglia. Sono ospiti del convento di clausura delle suore Serve di Maria di Arco, in provincia di Trento. Perché «clausura e accoglienza non sono in contraddizione », ci dice suor Anna, 80 anni (ma ne dimostra molti di meno) di allegria, energia, cuore aperto. Come le sue consorelle suor Lucia, suor Maria Agnese e suor Giovanna. «C’è un equivoco. La clausura è nata per realizzare l’ideale monastico del silenzio, del 'deserto', della libertà da condizionamenti. Ma il monachesimo non è fuga dal mondo, ma solo dal mondo del potere, non è fuga dalla gente». Così, aggiunge, con spiazzante semplicità, «le porte sono aperte e ancor più il cuore, per entrare in relazione più intima col Signore. Amarlo di più è amare di più gli uomini». Così da anni il bellissimo convento del ’600 è aperto all’esterno, «coppie in crisi, persone in difficoltà, o che hanno solo bisogno di silenzio».

Ci sono tanti spazi, un bel giardino pieno di fiori. A una delle finestre è appesa la bandiera della pace. «Qualcuno lo critica, ma noi non facciamo po-litica, vogliamo solo la pace». Così come le due famiglie che ospitano. Tutto è cominciato quando le suore hanno saputo del progetto del Centro Astalli di Trento per l’accoglienza negli ordini religiosi. E hanno aperto le loro porte. «Fare ospitalità degli immigrati è un’idea che avevamo da tanti anni. Gente che ha così sofferto! Vogliono solo lavorare e vivere in pace». Proprio come Serheij e Abraham. Il primo lo incontriamo mentre sta sistemando la recinzione in legno del giardino.

È ingegnere minerario. Viene da Pokrovsk, proprio la zona dove in questi giorni la guerra è più drammatica, e lavorava nel settore dell’estrazione del carbone. Ci racconta la guerra e il viaggio, grazie al traduttore dello smartphone che suor Anna usa con la disinvoltura di una ragazza. È arrivato il 14 aprile con la moglie, due lauree in economia, i tre figli di 12, 8 e 6 anni e due gatti. Un viaggio un po’ in treno e un po’ a piedi. Rotta balcanica, fino a Trento. Poi l’incontro col Centro Astalli e l’accoglienza delle suore. «Siamo andati via per non far vedere la guerra ai nostri figli». Che però le bombe le hanno sentite e il più piccolo è ancora scioccato. In Ucraina è rimasta l’anziana madre, malata, ma come molti anziani non è voluta partire. «La nostra casa non è stata ancora distrutta ma i missili arrivano ogni giorno» ci dice Serheij.

Ma la casa non è vuota. «Ci vivono persone di Lugansk che hanno perso la casa. Non hanno più casa, non c’è più la città». Parole drammatiche, ma Serheij non fa il profugo. Appena arrivato si è messo subito a fare lavoretti di manutenzione per le suore, ed è molto bravo. E tra poco inizierà a lavorare in una ditta di impianti termoidraulici dove c’è già un operaio ucraino che gli farà da interprete. I bambini hanno finito la scuola ucraina in Dad e ora sono stati iscritti alle scuole comunali di Arco. Nuovi rifugiati e vecchi rifugiati. Europa e Africa. Abraham viene dalla Nigeria ed è arrivato più di sei anni fa con un barcone, soccorso dalla nave di una Ong. Libia, Sicilia e poi Napoli e infine Trento.

Lo ha poi raggiunto la moglie Tina, 28 anni, mentre in Nigeria è rimasto il figlio Isaac di 9 anni. «Il viaggio era troppo pericoloso, non potevo rischiare la sua vita ». Ora ha fatto domanda di ricongiungimento, ma «ci sono tanti problemi – commenta amaramente suor Anna – e anche per ottenere il permesso di soggiorno. Tutto è più difficile per loro». Ma vivono la loro vita con speranza. Così in Trentino sono nati un maschietto che ora ha 4 anni e una femminuccia che ne ha uno. Bimbi italiani. «Ancora no, ancora non si può». Ci risponde Abraham con un sorriso amaro, perché conosce bene le difficoltà per far ottenere la cittadinanza ai figli dei rifugiati nati in Italia. Eppure lui, che in Nigeria faceva il giardiniere, qui lavora in un cantiere edile e parla molto bene italiano. Mentre i bambini vanno nelle scuole di Arco.

Un’accoglienza davvero ben fatta. Le due famiglie si autogestiscono, grazie anche al contributo pubblico per gli ucraini e ai fondi dei progetti del Centro Astalli. E ora coi salari dei due papà. Un’accoglienza che cresce come i pomodori, le melanzane, le cipolle, il basilico che crescono nell’orto del convento grazie alla cura di Uliana, la mamma ucraina. Frutti da condividere, proprio nello spirito di questa esperienza. «Più clausura è più accoglienza, altrimenti è una prigione. Invece la nostra vita si arricchisce con la vita di questa famiglie», è l’ultimo bellissimo messaggio che ci lascia suor Anna.


"Il progetto del Centro Astalli"

Il progetto del Centro Astalli di Trento per l’accoglienza negli ordini religiosi nasce nel 2016 “dopo l’appello di papa Francesco ad aprire le nostre porte, una scelta rafforzata dopo i cosiddetti “decreti sicurezza” e gli effetti negativi prodotti”. Così il presidente del Centro Astalli, Stefano Graiff, spiega il senso dell’iniziativa che attualmente coinvolge sei ordini religiosi: Gesuiti, Cappuccini, Comboniani, Dehoniani, Suore Canossiane e Serve di Maria, e a settembre anche i Francescani. Attualmente ospitano 57 immigrati, africani e pakistani, oltre a 11 ucraini (due famiglie). Accoglienza diffusa, piccoli gruppi. Sono tutti richiedenti asilo. Ma potrebbero essere molti di più. Come ci spiega il direttore del Centro Astalli, Stefano Canestrini, “dall’inizio dell’anno, provenienti dalla frontiera di Gorizia, sono arrivati più di 200 pachistani. Ben 97 di loro vivono per strada perchè tardano gli appuntamenti in Questura per presentare domanda d’asilo. E senza domanda non si può essere accolti. Eppure i posti ci sarebbero”, denuncia. Infatti oltre agli ordini religiosi c’è tutta una rete di associazioni che già ospita più di 400 richiedenti asilo. E a preoccupare è anche questo flusso anomalo di pachistani negli ultimi mesi, tutti provenienti dalla rotta balcanica e tutti diretti a Trento. Sapendo bene dove andare. C’è il sospetto di un’organizzazione che gestisce questo flusso ma anche il successivo reclutamento lavorativo. Lavoro nero o irregolare, sfruttamento sia di datori di lavoro pachistani che trentini. Soprattutto nel settore del turismo. Ipotesi su cui starebbe lavorando la procura della Repubblica di Trento.