Attualità

èfamiglia. Se il figlio “costa” il posto

Antonella Mariani venerdì 28 gennaio 2011
E vissero precarie e... scontente. Non è certo una bella favola, quello che accade a un numero crescente di giovani donne: precarie nel lavoro, precarie nella vita, con maternità rimandate di anno in anno a ogni scadenza del contratto, in attesa di quello definitivo. Lo vediamo intorno a noi, ora ce lo dice anche chi per mestiere studia le tendenze socio-economiche della società. In Italia il precariato femminile incide sulle cifre della maternità, peraltro già bassissime: nel 2009 il numero medio di figli per donna era 1,41, nel 2010 è sceso a 1,4, con 12.200 nascite in meno.Dunque, in Italia si fanno sempre meno figli e un ruolo (al ribasso) lo gioca anche la precarietà femminile. Francesca Modena e Fabio Sabatini, rispettivamente dell’Università di Trento e di Siena, nei giorni scorsi hanno pubblicato uno studio in cui, incrociando i dati statistici in loro possesso e corredandoli con una ricerca qualitativa su un campione di coppie in cui le donne sono disoccupate o occupate con contratti a tempo indeterminato oppure "atipici". Ebbene, i due studiosi dimostrano che «le coppie in cui la donna è precaria hanno il 3% di probabilità in meno di pianificare una gravidanza» rispetto a quelle in cui la donna ha un contratto a tempo indeterminato, a parità di altre condizioni come l’età e l’istruzione. La precarietà è un deterrente pesante, nonostante anche i contratti a tempo, quelli a progetto o co.co.co. prevedano forme di tutela della maternità, tra cui il congedo obbligatorio e un’indennità economica. Ma non, ovviamente, la garanzia di un rinnovo del contratto. «La precarietà femminile – notano i due ricercatori nel loro studio, pubblicato dal forum internet neodemos.it – è associata a una forte incertezza relativa ai redditi futuri e al fondato timore che la scelta di diventare madre possa compromettere ogni possibilità di realizzazione nel mondo del lavoro». Una gravidanza può costare il posto, così come compromettere la possibilità di reinserimento professionale dopo un periodo trascorso a casa accanto al figlio. Proprio ieri su Repubblica una lettrice, Ilaria Riggio, «34 anni, una laurea, un master», raccontava che dopo anni il suo contratto a progetto stava per essere trasformato in contratto a tempo determinato, ma quando lei ha scoperto di attendere un figlio l’azienda improvvisamente si è «dimenticata» della promessa. «Io ora sono incinta e anche disoccupata. Così facendo le aziende costringono le donne a mentire o a rinunciare, con il ricatto della non assunzione, alla maternità», conclude amaramente.«Al corso pre-parto – racconta ad Avvenire una neomamma milanese 33enne – eravamo quasi tutte precarie, qualcuna a tempo determinato, altre co.co.co. Io ero la più giovane, alcune sfioravano i 40 anni. Avevano aspettato, anno dopo anno, sperando in un contratto stabile. Poi si sono arrese all’orologio biologico. E adesso incrociano le dita». Dunque, che fare? Se uno degli scenari più preoccupanti per l’Italia è quello dell’inverno demografico, bisogna trovare una via d’uscita perché la flessibilità del lavoro non sia per le giovani donne sinonimo (solo) di instabilità, bassi stipendi e scarsa tutela. Ed ecco, allora, i suggerimenti dei due economisti Modena e Sabatini: le misure di sostegno alla fecondità finora si sono concentrate sulla coppia con figli, «dimenticando colpevolmente le donne che sono state costrette a rimandare o rinunciare. È indispensabile combattere alla radice le cause del declino della fecondità, adottando serie politiche del lavoro che riducano la precarietà, soprattutto quella femminile». Come, è tutta un’altra storia.