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Il Pd nella bufera. Scissione, suspence su Emiliano. Ma 50 parlamentari sono pronti

Roberta D'Angelo martedì 21 febbraio 2017

La sede del Pd a Roma (Ansa)

L’attesa decisione del governatore pugliese Michele Emiliano lascia ancora un giorno il Pd sospeso nel vuoto. La scissione ormai è cosa fatta, ripete Roberto Speranza, che con Enrico Rossi, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema è già fuori dal Pd. La trattativa va avanti a oltranza, ma solo per arginare l’emorragia e limitare il numero di senatori e deputati che dalla prossima settimana, o forse già da venerdì, formalizzeranno la nascita dei nuovi gruppi parlamentari. Domani anche i dissidenti voteranno la fiducia al decreto Milleproroghe. Un segnale per il governo Gentiloni di un sostegno comunque assicurato. Dunque oggi alla direzione del partito, che avvia la fase congressuale, non ci saranno i candidati che avevano deciso di sfidare Matteo Renzi. Restano dubbi solo sul presidente della Puglia, che però attendeva una risposta.

Ma neppure l’ormai ex segretario dovrebbe partecipare alla riunione del 'parlamentino' dem. Senza ancora i contorni definiti, insomma, la nuova realtà comincia a prendere corpo. Cominciano persino a circolare le prime 'bozze' di nome per il nuovo soggetto: potrebbe chiamarsi 'Italia progressista' o 'Democratici e socialisti', o altro ancora. A poco valgono gli ultimi appelli di Piero Fassino, che non si rassegnava ancora ieri «a pensare che la scissione sia inevitabile ». Il suo appello «a tutti i nostri dirigenti, di maggioranza e di minoranza» cade nel vuoto. Le manovre sono già iniziate e insieme i conti. Dentro il Pd, Andrea Orlando, Gianni Cuperlo e Cesare Damiano continuano a tenersi in contatto dopo la riunione di domenica sera, seguita alla drammatica assemblea. I tre esponenti ex Ds sono pronti a creare un’area larga che avanzi una proposta politica nuova per rifondare il Pd. Con loro c’è anche il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e il ministro dell’Agricoltura Martina. Una corrente di sinistra, in grado di esprimere una candidatura da contrapporre a Renzi. Il guardasigilli è pronto a sacrificarsi, pur non avendo grande voglia di competere per la leadership: «Se la mia candidatura è in grado di far ripensare chi ha preso la strada della scissione io sono in campo, più im- portante di noi è il destino del Pd», dice il ministro della Giustizia Orlando. E però, quella che doveva essere la candidatura in grado di tenere tutti dentro non è ancora ufficiale e non sarebbe comunque bastata a Bersani e compagni.


Motivo per cui si attendono ancora le mosse di Emiliano e poi si valuteranno quelle dei democratici ex-Ds, decisi a restare. Quanto ai dissidenti, ormai la decisione è presa. «E che bisogna andare a farci?», si chiedeva di prima mattina Enrico Rossi, il primo a sfilarsi dalla Direzione di oggi. «Ormai mi considero fuori dal Pd. Non c’è più possibilità e credo che sia necessario far cessare questo tormentone. Ormai il Pd è il partito di Renzi e non c’è spazio per alcuna dialettica», secondo il presidente della Toscana. «Per me non ci sono le condizioni per stare nel Congresso, e non credo andrò alla prossima direzione del Pd dopo quello che è accaduto», spiegava più tardi Roberto Speranza, già a Venezia ieri pomeriggio, alla iniziativa di Giuliano Pisapia. Prove tecniche di intesa, ma con i numeri e le percentuali a forte rischio. Non si ragiona, infatti, solo su quanti saranno i componenti dei due nuovi gruppi in procinto di entrare negli annali del Parlamento, con un nome ancora da definire (c’è chi vede bene 'Uguaglianza e libertà per il centrosinistra'). Si ipotizzano tra i 15 e i 18 senatori di fede bersaniana e una ventina (ma c’è chi arriva a 30) di deputati. Un po’ meno di 50. Il vero nodo saranno invece le soglie da raggiungere per entrare in Parlamento al prossimo giro, con le due leggi elettorali in vigore. Il nuovo partito che dovrebbe nascere, infatti, potrebbe valere tra il 5 e il 7 per cento.

Tradotto in termini di seggi, alla Camera si potrebbe puntare a una quarantina di deputati, ma il problema, se non saranno modificate le leggi elettorali, sarà a Palazzo Madama, dove la soglia dell’8 per cento potrebbe lasciare all’asciutto la nuova formazione, che potrebbe prendere al massimo un paio di senatori. Calcoli e conti che parlano già in una lingua diversa da quella del Pd. Ma fino all’ultimo c’è chi non si dà per vinto. E lo stesso Cuperlo, che aveva vissuto il dramma della frattura con la sinistra nella scelta del sì al referendum costituzionale, ieri sera confidava ancora in un ravvedimento dell’ultima ora. Convinto che se scissione sarà, «il principale sconfitto sarebbe proprio Matteo Renzi perché rimarrebbe agli atti come il segretario di un grande partito del centrosinistra che non è stato in grado di tenere unita la sua comunità».