Attualità

Il dossier. Le scarpe europee «prodotte all’Est da operai sfruttati»

Luca Liverani martedì 29 novembre 2016

Che dietro ai prezzi stracciati delle scarpe nei mercati rionali ci sia lo sfruttamento del lavoro è probabile. Storie imbarazzanti sono emerse in passato anche sulle multinazionali dello sport che producono in Asia. Ma dei marchi italiani ed europei solitamente il consumatore si fida: il made in Europe è sinonimo di qualità e tutela del lavoro di chi lo produce. Una fiducia mal riposta? Il rischio c’è, visto che molte di queste aziende delocalizzano la produzione nell’Europa del-l’Est. E secondo Change Your Shoes - cartello di 15 ong europee e 3 asiatiche - nelle fabbriche di Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Romania, Polonia e Slovacchia che lavorano per noti marchi di calzature europee la realtà è fatta di salari da fame, orari di lavoro pesantissimi, condizioni insalubri.

Decine di migliaia di lavoratori che producono scarpe belle e di qualità per l’italiana Geox, la svizzera Bata, la spagnola Zara e altri marchi (Lowa, Deichmann, Ara, Leder & Schuh Ag, CCC Shoes & Bags, Ecco, Rieker, Gabor). Gli operai albanesi, macedoni e romeni, ad esempio, percepiscono un salario minimo fra i 140 e i 156 euro mensili. Meno che i colleghi del Donguann in Cina. Per poter mantenere le proprie famiglie, le operaie est-europee dovrebbero guadagnare almeno il quadruplo. Il dossier Il lavoro sul filo di una stringa è frutto di interviste a 179 lavoratori di 12 calzaturifici dei sei paesi dell’Est dove lavorano almeno 120 dei 300 mila lavoratori del cuoio in Europa. La trafila è nota: i marchi italiani inviano il materiale da assemblare nei Paesi a basso reddito, le scarpe prodotte vengono rispedite in Italia dove vengono confezionate ed etichettate come Made in Italy. «Nei paesi europei a minor reddito – affermano i ricercatori – l’industria dell’abbigliamento e delle calzature gode di pessima fama in quanto a salari e condizioni di lavoro».

Venendo pagate a cottimo, spesso le lavoratrici per lavorare più rapidamente rinunciano ai guanti o ad altre protezioni contro le colle e le sostanze chimiche che devono maneggiare. Va sottolineato che le grandi aziende non si giovano solo del minor costo della vita nei pae- si dove delocalizzano, ma di ulteriori ribassi sui minimi salariali legali: i governi locali «favoriscono specifici settori economici, come l’industria dell’abbigliamento e delle calzature, consentendo deroghe al ribasso alle leggi sui minimi retributivi nazionali». Macedonia e Bosnia Erzegovina «consentono deroghe a livelli salariali ufficiali già molto bassi». Qualche esempio? La paga in un calzaturificio, rispetto ai livelli minimi legali, è dell’89% in Macedonia, dell’86% nella Bosnia Erzegovina e appena del 71% nella Federazione della Bosnia Erzegovina».

Ma formalmente è tutto legale. Il giro di affari è enorme. Nel 2014 nel mondo sono state prodotte 24 miliardi di paia di scarpe. La maggior parte in Asia, ma il 23% delle scarpe più costose in Europa. Ed è in Toscana la conciatura del 60% di tutto il cuoio prodotto nell’Ue. «L’esternalizzazione delle produzioni condotta dai marchi europei verso l’Est Europa – afferma il dossier – non si basa su processi di responsabilità e trasparenza. E non produce dignità e benessere per le lavoratrici che vivono in situazione di povertà e spesso di miseria». Il problema non sono solo i salari troppo bassi. Le lavoratrici denunciano lavoro straordinario non retribuito (in Albania il lavoro di sabato è la regola e non l’eccezione), difficoltà a godere delle ferie spettanti, mancati pagamenti dei contributi sociali obbligatori, rischi per la salute dovuti a temperature troppo alte o troppo basse, esposizione a sostanze tossiche. A parità di mansioni, poi, le donne guadagnano meno degli uomini. Inevitabile integrare il reddito con agricoltura di sussistenza nel poco tempo libero o lavori stagionali all’estero durante le ferie.

«A tutti i marchi e distributori coinvolti – è la richiesta di ChangeYour Shoeschiediamo di assumersi le proprie responsabilità e di mettere in atto le misure necessarie affinché il rispetto dei diritti umani sia garantito nella totalità della loro catena di produzione» e «che vengano versati salari dignitosi».