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Migranti. Bosnia: tra le famiglie respinte, nascoste nei boschi per non venire separate

Nello Scavo - Inviato a Nepeke (Bosnia) mercoledì 17 febbraio 2021

Una famiglia di profughi afghani. Vivono nascosti in un casolare abbandonato in Bosnia. Sono stati respinti alla frontiera croata

Il villaggio di cellophane e neve non si trova su nessuna mappa. Bisogna arrivarci arrampicandosi su un pendio di ghiaccio, aggrappandosi ai rovi seccati dal freddo, seguendo una muta di amichevoli randagi che conoscono la strada. Al riparo da qualsiasi sguardo, è qui che da mesi si nascondono i più piccoli tra gli invisibili della rotta balcanica. Protetti dalla fitta foresta, per tetto hanno solo qualche telo di plastica nera annodato ai tronchi di faggi e pini neri.

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Nel solo cantone di Una–Sana ci sono 500 minori non accompagnati, insieme a circa 450 bambini con le loro famiglie. In tutto un migliaio di minorenni, più dei mille maschi adulti ammassati tre le tende del campo ufficiale di Lipa, in Bosnia.

«Qui non diamo fastidio e non ci danno fastidio» spiega l’imam migrante bengalese. Nel villaggio abusivo dei respinti, sotto al telone verde c’è pure la moschea. Il ragazzo afghano ce l’ha con la neve. Perché la legna è fradicia, e non ci si può neanche scaldare intorno a un fuoco. Racconta di essere stato respinto 54 volte. E non con le buone. «Ma non mi arrendo. Appena smette di far freddo ci riprovo. Se non mi vogliono dovranno ammazzarmi», dice con il tono audace di chi a neanche sedici anni ne ha viste troppe per lasciarsi scoraggiare dalle sprangate di un poliziotto europeo.

Qualche anno fa nessuno di loro sarebbe venuto a nascondersi nel bosco dei reietti. La gente di Nepeke non aveva mai fatto mancare una scodella di zuppa né il latte caldo per i bambini. Ma ora i dannati della rotta balcanica non sono più i benvenuti neanche alla preghiera del venerdì, quando almeno si sentivano parte di una comunità. Nella nuova moschea, una delle decine edificate di recente con fondi di sauditi e dal Kuwait, non tutti sono contenti di vedere arrivare gli stranieri che nessuno vuole.

«Che vadano nella Repubblica serba, dove hanno 149 caserme abbandonate, ne facciano centri di accoglienza», dice Suhret Fazljc, il sindaco di Bihac che dal capoluogo sul confine riapre le questioni irrisolte dal termine del conflitto degli anni ‘90. L’ex Repubblica Jugoslava della Bosnia ed Erzegovina è stata di fatto spartita in due zone, la Federazione croato–musulmana (51% del territorio) e la Repubblica Serba (il restante 49%). Le ruggini, non di rado su base etnica e religiosa, tracimano nella politica e i migranti sono diventati l’arma per scambiarsi colpi bassi.

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Delle questioni interne i profughi sanno poco. Ma hanno appreso che per quieto vivere è meglio trovare un modo per farsi accettare. Meglio se pagando. A Bosanska Bojna le poche decine di residenti non fanno la spia alle guardie di confine. Un paio di settimane fa quattro europarlamentari italiani del gruppo dei Socialisti e Democratici erano stati bloccati dall’altra parte del confine, in Croazia. Le proteste di Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Pierfrancesco Majorino e Brando Benifei erano arrivate fino in Bosnia. «Cosa non vogliono farci vedere?», si erano domandati.

Se i croati respingono le accuse per i respingimenti violenti, i bosniaci non commentano altri episodi inquietanti. Nei giorni scorsi, come documenta un video girato da alcuni migranti ricacciati indietro, ci sono stati degli incendi appiccati per costringere i respinti a non riposare, dopo ore di marcia di rientro dalla frontiera, e cercare rifugio altrove. Una “bonifica” della fascia di confine che costringe soprattutto le famiglie con bambini a percorrere chilometri a ritroso tra i boschi e spesso, di accamparsi nella foresta in attesa di poter raggiungere un luogo almeno meno inospitale.

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Per non venire scoperti un modo c’è. Il medico afghano che tiene sulle spalle il bambino di cinque anni sta per attraversare i campi innevati per raggiungere l’unica casa con le luci accese e il camino che fuma. Ci abita gente del posto. Hanno messo a disposizione il loro secondo bagno. «Ci chiedono tre euro per 10 minuti di doccia tiepida», si lamenta il dottore scappato dal distretto di Khan Abad, nella provincia settentrionale afghana di Kunduz. Ci porta i bambini, a turno. Per loro è un gioco, credono di essere bene accetti. Non sanno che quella doccia a pagamento è il prezzo per non venire indicati alla polizia. «I croati ci hanno respinto tre volte questa settimana, i bosniaci se ne approfittano», racconta al ritorno il padre mentre nella baracca malmessa la moglie fa sciogliere la neve e ci prepara un tè. Chi era passato prima di loro aveva messo da parte della legna. Tutti i migranti lasciano qualcosa, perché può tornare utile se si viene respinti, oppure servirà a chi arriverà dopo. «Voglio andare in Germania ma poi vorrei tornare qui», dice il dottore mentre lo guardiamo e non comprendiamo. Hanno tre figli. Bambini che le tv non vedono semplicemente perché le famiglie non vanno per campi profughi. Rischiano di venire divisi. Uomini a Lipa e donne a quaranta chilometri. Il dogma è restare uniti. «Quando sarò in Germania e riconosceranno il mio titolo di medico – prosegue il capofamiglia – chiederò a qualche Ong di prendermi a lavorare con loro per tornare qui e curare chi ne ha bisogno». Mentre lo dice ordina a un ragazzo poco più che adolescente di mostrarci qualcosa. «Li ho conservati per i poliziotti quando mi picchieranno di nuovo», spiega portandosi all’esterno, lontano dai piccoli e dalle due donne. Sono pantaloni stracciati, ricoperti di sangue rappreso. Poi dietro al casolare, mente comincia a fare buio, toglie la felpa e i calzoni. Trema di freddo, e ancora di paura. La vasta ferita sulla coscia destra trasuda pus. Il cugino dottore prova a curarlo con impacchi di neve fresca. Non c’è altro. La schiena è uno spartito di escoriazioni profonde e lividi. «Mi hanno colpito in quattro, mentre ero a terra, erano poliziotti», assicura mentre si riveste.

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Tra le campagne sottozero gli operatori di Save The Children vanno alla ricerca dei «bambini sperduti». Ma dell’allegra compagnia di Peter Pan non hanno nulla. Tra le rovine di cascinali a cui nessuno ha tolto le cicatrici dell’artiglieria di trent’anni fa, si trovano quaderni dalla grafia minuta e ordinata in lingua pashtu. I compiti dei bambini sono uguali ovunque. Lettere dell’alfabeto ripetute all’infinito. Li hanno lasciati lì, sul materasso bucato, accanto a un bambolotto. I genitori sanno che la polizia croata non va per il sottile.

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Ci sono bambini che partono per la Croazia ma tornano negli accampamenti fradici di pupù. Da ambo i lati la polizia strappa e butta via i pannolini per essere certi che i genitori non nascondano cellulari, denaro o il numero di qualche passeur proprio nei Pampers donati dalle organizzazioni umanitarie. «Sono sicura che nessuno dei poliziotti ha figli – scandisce la mamma riponendo ancora qualche speranza nel prossimo tentativo – altrimenti non spoglierebbero i nostri bambini».