Attualità

LA SOCIETÀ CHE CAMBIA. Rom, poveri e italiani Ma un terzo lavora

Paolo Lambruschi martedì 12 giugno 2012
Lavorano anche se non in regola, si spostano per necessità come i migranti, preferiscono abitare in case e non in campi-ghetto, quindi basta chiamarli nomadi. La prima indagine nazionale sulla condizione di rom e sinti, presentata ieri a Milano dalla Casa della Carità, smentisce i pregiudizi radicati in Italia sul «popolo del vento». Curata in collaborazione con il consorzio Aaster e svolta nel progetto «Eu Inclusive», la ricerca copre un buco tutto italiano.«Abbiamo avuto tre anni di stato d’emergenza – spiega il sociologo Aldo Bonomi, curatore della ricerca – che attribuiva poteri straordinari ai prefetti di cinque regioni in riferimento ai rom e ai loro insediamenti, ma non sapevamo nemmeno quanti fossero e quali problemi avessero. Ora sappiamo che sono circa 170 mila, la metà italiani, che in tutto sono solo lo 0,2% della popolazione e che il 60% è minorenne. Eppure fanno paura e la loro condizione è stata trattata per anni come problema di ordine pubblico. Ora almeno il linguaggio pare cambiato». Lo stato di emergenza, ricordiamo, è stato giudicato illegittimo dal Consiglio di Stato, ma un ricorso presentato a febbraio dal governo potrebbe sospendere la sentenza e tornare all’emergenza. Questa situazione ha portato a un blocco delle risorse già stanziate, vale a dire 33 milioni di euro in tutto il Belpaese e cinque milioni solo a Milano, stanziate per il piano elaborato dall’ex ministro dell’Interno Maroni. Ma veniamo alla fotografia dei rom in Italia, scattata intervistando 1668 persone di 60 insediamenti in 10 regioni italiane. Conferma la situazione di povertà, esclusione e discriminazione di questa minoranza etnica che in tutta Europa è lo standard su cui misurare le politiche di inclusione. Anzitutto il tasso di occupazione è più alto del previsto. Quasi il 35% ha un lavoro, anche se a volte irregolare, e l’ambito lavorativo è quello dove meno si sentono discriminati (circa il 30%). L’universo degli occupati è composto da un 20% di regolari e un 11% di irregolari, mentre tutto il resto fa lavoro nero, soprattutto come autoimpiegati in settori quali la raccolta di metalli o l’edilizia e in attività domestiche nel caso delle donne, di cui solo una su cinque è occupata perché si occupano dei figli. Il totale dei disoccupati è il 27%, oltre due su tre di costoro si dicono disposti a lavorare.«Ma occorre riflettere sull’irregolarità distinguendola dall’informalità – aggiunge Bonomi – ad esempio a Berlino, pagando sei euro al comune, i musicisti di strada rom ottengono un’autorizzazione a suonare anche sul metro girando gratis. Da noi non se ne parla, eppure sarebbe un passo avanti verso l’inclusione, che sarebbe la strategia da perseguire, non l’assimilazione. Trattiamoli da migranti, sette su 10 vengono in Italia per miseria».Se l’ambito lavorativo è centrale, la casa è il secondo fattore di inclusione sociale. Infatti quasi la metà dei rom che vivono in abitazioni è occupato, mentre tra gli abitanti dei campi abusivi la percentuale scende al 24%. E in Italia, soprattutto in città come Roma e Milano, tre quarti di rom e sinti vive in insediamenti a loro esclusivamente destinati simili ai ghetti con forti conseguenze anche in termini di istruzione. Se solo uno su quattro dichiara infatti di avere la licenza elementare, tra i rom che vivono in campi irregolari il 23% dei minori non sono scolarizzati contro il 7% di coloro che vivono in casa. In generale quasi il 20% dei rom è analfabeta, percentuale che cresce per le donne al 25% e si riduce al 10% considerando i minori di 20 anni. Da sfatare il mito che non vogliono vivere in case, solo un terzo risiede in case di proprietà o in affitto, ma l’85% dei provenienti dalla ex Jugoslavia e il 62% dei provenienti dalla Romania ha un progetto migratorio stanziale ed è disponibile a restare in Italia dove è arrivato per cercare un lavoro e una qualità di vita migliore . Semmai il problema della vita in campi o in realtà abitative diverse riguarda rom e sinti italiani che sono giostrai, circensi o allevatori di bestiame. Quanto alla discriminazione, i rom si sentono esclusi dall’accesso ai servizi (67,5%) e nei luoghi pubblici (34,3%). «Ma il 72% dei rom dichiara che la discriminazione non è diminuita negli ultimi dieci anni – commenta Bonomi – significa che occorre lavorare sull’opinione pubblica». Infine il mito della ricchezza: tre quarti dichiarano un reddito famigliare di 600 euro mensili, sotto la soglia di povertà. Per il presidente della Casa della Carità, don Virginio Colmegna, occorre intensificare «i progetti di mediazione e accompagnamento sociale che partono dai diritti di queste persone, le rendono protagoniste e, al tempo stesso, ascoltano i bisogni e le difficoltà dell’intera cittadinanza. Va garantita la dignità con l’accesso alla sanità, all’istruzione e alla casa, diritti universali, non la favela. Serve un piano nazionale e piani locali, ma non si può andare avanti solo condizionati dalla pressione dell’opinione pubblica con risposte di emergenza».