Attualità

Lo scenario. Renzi spinge per le primarie, il Pd rischia la spaccatura

Marco Iasevoli domenica 12 febbraio 2017

L’ira di Renzi ha superato il livello di guardia dopo aver letto le reazioni della minoranza alla sua proposta di fare le primarie per il segretario a maggio, quando sarebbe stato poi impossibile chiedere il tanto temuto voto anticipato a giugno. I «no» che gli sono piovuti addosso sono la risposta al suo personalissimo test. «Ormai è chiaro – si sfoga l’ex premier –. Hanno un solo piano: tirarla per le lunghe fino ad ottobre, indebolirmi e poi, con il governo in difficoltà sui conti, provare a vincere il Congresso e spazzare via la nostra stagione di riforme. Ma ho ancora un’arma per uscire da questa gabbia e la userò...». L’arma è davvero una sola ma è dirompente: le dimissioni da segretario, la convocazione a tamburo battente dell’Assemblea nazionale, l’apertura forzata, con la collaborazione del presidente dem Matteo Orfini, della procedura che porta al Congresso anticipato e all’elezione del nuovo leader del Pd. «Se avessero voluto tenere il partito unito, avrebbero accolto una delle mie cento proposte di mediazione», replica l’ex premier a chi gli fa notare che lo strappo porterà dritto alla scissione.


Quindi ciò che accadrà tra poco in Direzione sembra essere già scritto: annunciando che darà le dimissioni in un’imminente Assemblea nazionale, Renzi di fatto renderebbe inutile l’intera successiva discussione. Perché il Parlamentino dem non potrà che prenderne atto e passare la palla all’Assemblea, l’organismo deputato a decidere se e entro quando convocare il Congresso. Lo statuto dem dice che dalle dimissioni all’elezione del nuovo segretario devono passare al massimo 4 mesi. Renzi e Orfini sono pronti a mettere il turbo e a fissare i gazebo già il 30 aprile, in tempo per provare poi la corsa alle urne sia a giugno sia in autunno a seconda delle situazione politica. Ieri l’aria tra i fedelissimi del segretario era tesissima. La sensazione è che la rottura sia imminente e drastica. Perché la gran parte della minoranza non sembra intenzionata ad assecondare la voglia di «conta interna» di Renzi. E quindi potrebbe decidere, già la settimana prossima, di costruire un’altra casa. Le proposte non mancano: c’è la sinistra dialogante e governista di Pisapia e quella più 'radicale' di D’Alema. Ma a quel punto l’intero discorso del Congresso, delle primarie e della conta interna resterebbe fine a se stesso: con la spaccatura del Pd si andrebbe al voto alla prima finestra utile in ordine sparso e con le leggi elettorali scritte dalla Consulta, al massimo omogeneizzate blandamente da una leggina di raccordo. A meno che, ed è sempre bene metterlo in conto quando c’è Renzi in campo, l’intera strategia dell’accelerazione non abbia come fine un compromesso avanzato: Congresso con primarie a giugno, per poi giocarsi la partita del voto in autunno in chiave anti-Ue.

Mai come in queste ore l’implosione del Pd è sembrata così reale e vicina. E la presenza in Direzione del premier Paolo Gentiloni e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aumenterà il tratto drammatico della riunione. In teoria, la presenza del titolare del Tesoro dovrebbe servire a definire una strategia comune rispetto alle pressanti richieste dell’Ue sui conti pubblici. In realtà, sancirà solamente la distanza politica tra il segretario e il Tesoro e la netta divisione nel partito anche in ordine alla politica economica. Renzi è intenzionato ad attaccare l’Ue delle «letterine ridicoli» e testare così la 'fedeltà' dell’esecutivo in carico. Una situazione potenzialmente imbarazzante. Particolarmente delicata la posizione di Gentiloni. La sua partecipazione alla Direzione è certa in quanto premier e in quanto dirigente del Pd. Ma è chiaro che tutto ciò che avverrà si ripercuoterà sul suo governo. E il fatto che le dinamiche interne al partito stiano intralciando l’esecutivo non può che essere motivo di frizione tra Nazareno e Palazzo Chigi. Gli ufficiali di collegamento smentiscono, ma Renzi negli ultimi giorni ha visto male l’attendismo dell’esecutivo sulla legge elettorale, la rinuncia del governo a qualsiasi ruolo attivo nella partita. È apparso al segretario un ostacolo indiretto alla prospettiva del voto a giugno. Oggi il segretario e il premier avranno modo di chiarirsi.

Renzi specificherà che il 'totem' non è il voto a giugno, ma evitare l’immobilismo. Con la pistola fumante delle dimissioni sul tavolo, il segretario spera di convincere la minoranza a rientrare nella logica di un confronto in tempi brevi, senza rinvii e «rosolamenti». È una partita a scacchi, insomma. Con strappi violenti. E possibili frenate che però al momento sono tutte da costruire. Ovviamente, dopo il discorso di Renzi, la massima attenzione sarà agli interventi di Franceschini, Martina, Orlando e dello stesso Gentiloni. Saranno loro quattro a farsi carico della mediazione: primarie per il segretario a giugno, per offrire - allo stesso tempo - all’ex premier la possibilità di ottenere la re-investitura in tempi brevi e alla minoranza l’opportunità di organizzare una controproposta seria. Un «Congresso di unità», insomma. Con il patto implicito che alle urne si va insieme e senza aspettare le calende greche del Parlamento sulla legge elettorale. A questo estremo tentativo di ridurre le distanze sarà Bersani a dire «sì» o «no». Renzi potrebbe adeguarsi a soluzioni che non rappresentino un rinvio sine die.