Attualità

Intervista. Giovannini: la mia ricetta per rilanciare i consumi

Marco Girardo domenica 17 agosto 2014
Ricostruire la catena che lega informazione, conoscenza e scelte politiche, per selezionare in modo più consapevole anche la classe dirigente: è diventato un obiettivo fondamentale della democrazia al tempo dei 'Grandi Numeri'. Enrico Giovannini ha scelto di affrontare un tema cruciale delle società contemporanee in un libro («Scegliere il futuro, conoscenza e politica al tempo dei Big Data», il Mulino) in cui confluiscono la sua formazione – e passione – di statistico ed economista, la lunga esperienza di presidente Istat e quella di ministro del Lavoro nel governo Letta. Siamo sommersi, dunque, da un diluvio di dati. La lettura della realtà socio-economica attraverso i numeri è – o dovrebbe essere – sempre più importante per «scegliere il futuro». Ma i 'numeri' con cui raccontiamo l’Italia rispecchiano la sua reale situazione? Dobbiamo distinguere fra copertura dei fenomeni – e si è fatto moltissimo per comprendere quelli nuovi, dai senza-tetto al funzionamento delle imprese multinazionali – e la tempestività dei dati. C’è ad esempio una forte asimmetria fra i 'numeri' dell’economia, penso al Pil o all’inflazione, e quelli ambientali come le emissioni di Co2, disponibili con un anno e mezzo di ritardo. Anche la diversa 'notiziabilità' accentua questa asimmetria: i media sono sempre concentrati su uno 'zero virgola' di Pil, ma sono meno attenti a fenomeni di grande rilevanza per le scelte politiche da compiere nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Cosa resta fuori della realtà, della vita vera delle persone, dal campo visivo statistico? Direi oramai poco. L’Italia sotto questo aspetto è avanti rispetto ad altri Paesi, al punto tale da misurare anche il cosiddetto 'benessere soggettivo'. Quando ero chief statistician dell’Ocse inserire questo tipo di rilevazioni di carattere psicologico era considerato da molti Paesi un tabù, mentre l’Italia aveva iniziato a fare ciò già negli anni ’90. Anche da presidente dell’Istat ho spinto molto in tal senso, sviluppando gli indicatori del BES (benessere equo e sostenibile) per andare 'oltre il Pil'. In generale, andrebbero ulteriormente affinate le misure delle relazioni; quelle fra imprese, ad esempio, come i contratti di rete o le subforniture. Ma soprattutto le relazioni sociali, così da giungere a misurare il cosiddetto 'capitale sociale'. Lei, abituato a maneggiare statistiche, che percezione qualitativa ha dell’Italia oggi? Che aggettivi utilizzerebbe per descrivere le condizioni in cui versa il Paese? Incerto. O meglio: un Paese bloccato dall’incertezza. Incertezza delle imprese, delle famiglie e anche della Pubblica amministrazione. Soffermiamoci sulle famiglie. Incertezza generata da cosa? Dalla crisi, la più lunga della nostra storia. Dal secondo Dopoguerra ci sono state diverse recessioni, gravi ma brevi, per affrontare le quali strumenti come la cassa integrazione andavano bene. Ma una crisi che dura per anni è una cosa diversa. E in questi anni è cresciuta anche – e di molto – la sfiducia sulla capacità della politica e delle istituzioni economiche di rispondere alla crisi. A fine 2013 la metà dei cittadini Ue si aspettava che il peggio dovesse ancora arrivare: un fenomeno di tali proporzioni provoca inevitabilmente un cambiamento dei comportamenti. Anche dello sguardo verso il futuro? Certamente. In passato l’atteggiamento era: «Le cose vanno male nel grande, nell’economia, ma nel mio piccolo, in famiglia, me la cavo». Se fino al 2012 il giudizio sulla situazione del Paese era peggiore di quello sulla situazione famigliare o della singola impresa, oggi il rapporto si è invertito. Con i governi Letta e Renzi si è assistito a un aumento della fiducia di imprese e famiglie sul fatto che il Paese si riprenda, ma c’è molta più prudenza sul fatto che migliori nettamente la situazione famigliare o dell’impresa. Questa incertezza si traduce nella stagnazione dei consumi e degli investimenti: «Non spendo, ma risparmio». Quello che è successo con gli 80 euro in busta paga? Il bonus è arrivato a fine maggio, i dati di giugno sono ancora prematuri per intercettare un effetto significativo. Ma pur essendo una misura positiva, il bonus certo non basterà a risollevare l’economia. Anche perché al momento resta una misura una tantum, nonostante le rassicurazioni del governo per renderla strutturale. E la teoria economica insegna che quando una misura non è permanente, il maggior reddito non si traduce in più consumi, ma in risparmio. È successo lo stesso per il pagamento dei debiti della Pa, utilizzati dalle imprese anzitutto per saldare i loro e non per investire. È lecito comunque attendersi un effetto nel secondo semestre? Speriamo, ma non credo sarà un effetto choc. Ricordo quando nel 2005 il governo Berlusconi tagliò in modo strutturale l’Irpef e ci si aspettava un effetto sulle aspettative che rilanciasse i consumi: l’impatto fu molto contenuto. Oggi, per di più, c’è un’elevata incertezza sulla Tasi e sulle tariffe locali che i comuni potrebbero aumentare per compensare il taglio dei trasferimenti statali, per non parlare del fatto che si è iniziato a parlare di una possibile manovra in autunno: sono tutte notizie che inducono le famiglie a risparmiare e non a spendere. In tal senso anche l’Europa, con i suoi messaggi di austerità, non aiuta… Se l’Europa insiste solo sul contenimento del deficit e sull’abbattimento del debito pubblico tutti si aspetteranno nuove misure restrittive da parte dei governi. Quando fu firmato il Trattato di Maastricht gli investimenti pubblici rappresentavano il 3% del Pil. Quindi, imponendo un analogo limite all’indebitamento pubblico si immaginava un pareggio del bilancio di parte corrente e un disavanzo in conto capitale che servisse a investire nel futuro. Bisogna tornare a quello spirito: non ci può essere un’austerità per gli investimenti, mentre va controllata la spesa corrente, al netto del ciclo, perché è evidente che nei periodi di recessione la spesa sociale deve farsi carico del disagio delle persone. Non trova in ogni caso eccessivo il condizionamento della politica dai numeri? Non è diventata spasmodica l’ossessione per lo 'zero virgola' del Pil tanto che la statistica pare intrappolare lo stessa capacità d’intervento della politica?Viviamo nell’Information society e quindi non possiamo stupirci se i dati sono spesso manipolati e utilizzati come strumento di propaganda. Dai politici, certo, ma anche dalle imprese e dalle organizzazioni della società civile. In questo i media dovrebbero dimostrare una maggiore capacità di sorveglianza. Anche il sistema finanziario, basta guardare all’ossessione per le relazioni trimestrali, pare vittima di una dittatura dei numeri che rischia in realtà di limitare la capacità progettuale a lungo termine. Il Ceo di Unilever ha deciso di non enfatizzare più le trimestrali, dicendo agli investitori: se intendete puntare su di noi, non ragionate nell’ottica di settimane o mesi, ma di anni. Ci vuole coraggio per farlo. Il combinato disposto dell’ossessione per le trimestrali e delle stock options  legate ai risultati di breve termine ha creato un corto circuito pericolosissimo per la finanza che è sotto gli occhi di tutti. Vale anche per la politica? Se ho davanti cinque anni posso programmare, se ho cinque mesi devo massimizzare il risultato in chiave elettorale. E non riuscirò mai a fare riforme strutturali, che possono anche avere effetti negativi nel breve termine, ma positivi nel lungo. Questo ci porta al uno dei temi caldi del dibattito politico-economico. In questo agosto sembrano confrontarsi due scuole di pensiero circa l’agenda per la ripartenza: prima la riforme istituzionali per dare un nuovo assetto al Paese o meglio accelerare subito sulle riforme economiche? Dipende da cosa si intende per riforme istituzionali! Ben vengano le riforme 'istituzionali' se si tratta di rendere i processi parlamentari più efficienti, con il superamento del bicameralismo perfetto, e soprattutto se riguardano temi dalle ricadute economiche ancor più importanti. Quali? Rivedere la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, che ha creato una situazione insostenibile nell’attribuzione dei poteri tra Stato e Regioni. Le faccio un esempio: quand’ero ministro, le politiche attive del lavoro erano in mano alle Regioni, i centri per l’impiego alle Province, la formazione ancora alle Regioni. Al ministro del Lavoro non resta che la normativa per agire, ma è ben poca cosa per migliorare concretamente la situazione del mercato del lavoro. Non a caso, con il disegno della 'Garanzia Giovani' che questo governo ha poi confermato, abbiamo dovuto mettere tutti gli altri soggetti a lavorare insieme e questo ha richiesto molti mesi di defatiganti trattative. Il Jobs act potrebbe risolvere almeno quest’impasse? Una ridefinizione dei compiti di Stato e Regioni passa per la riforma della Costituzione, non per il disegno di legge delega, nel quale ci sono elementi interessanti. Ma tutto dipenderà dai decreti delegati e dalle risorse disponibili, ad esempio, per la riforma degli ammortizzatori sociali. Anche il contratto a tutele progressive va bene, anche se bisogna fare attenzione ai segnali che si lanciano durante una fase di recessione. Si riferisce all’ennesimo scontro sull’articolo 18? Se la paura delle persone è perdere il lavoro, se sei in recessione e non hai un sostegno se diventi povero, l’effetto psicologico del dire «da oggi è più facile licenziare» può essere molto negativo, con le conseguenza macroeconomiche di cui abbiamo già parlato. Se cresci al 2%, invece, è ben diverso. I momenti in cui si fanno le riforme sono importanti e la loro fattibilità politica dipende molto dal contesto economico. Da ministro del Lavoro ha dovuto anche affrontare uno degli 'effetti collaterali' della riforma Fornero: lo spinoso capitolo esodati. La riforma è stata fondamentale per garantire la sostenibilità del sistema e dei conti pubblici. Ma ha avuto un costo alto come quello degli esodati: con il governo Letta abbiamo ridotto significativamente l’area di disagio e abbiamo disegnato il cosiddetto 'prestito pre-pensionistico' che contribuirebbe a prevenire la creazione di nuovi esodati, visto che con l’allungamento dell’età al pensionamento diventa più probabile finire nel 'buco nero' della disoccupazione in età avanzata. Lei ha anche lanciato un nuovo strumento contro la povertà, il Sostegno per l’inclusione attiva: che fine ha fatto? Quello della lotta alla povertà è probabilmente 'il tema' delle nuove politiche di Welfare. In presenza di crisi prolungate, visto l’abbandono di strumenti come il prepensionamento e la mobilità, un lavoratore rischia di finire più di ieri nel dramma della povertà. E l’Italia è uno dei pochissimi Paesi europei a non avere uno strumento universale di sostegno in tali situazioni. L’effetto è quello di avere 6,3 milioni di poveri assoluti, di cui oltre 1,2 milioni minori. Il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia, ndr)  è un reddito minimo condizionato a comportamenti 'attivi', come la ricerca di lavoro, l’impegno a mandare i figli a scuola e alle visite mediche. Sono convinto che se il Paese non si dota di uno strumento come il Sia risulterà molto complicato anche riorganizzare gli ammortizzatori sociali. Sì, ma a che punto siamo? È stata attivata la sperimentazione della nuova Carta di inclusione sociale nelle grandi città: inoltre, erano stati stanziati 500 milioni per la sua estensione in tutti i Comuni del Mezzogiorno e altri fondi per la sperimentazione del Sia, così da partire a regime nel 2015. Al momento non ho notizie di dove siano finiti i fondi. Nella 'delega Lavoro' il tema c’è: vedremo. L’Italia è tornata in recessione. E le altre grandi economie europee non stanno granché meglio: riesce a intravedere comunque qualche segnale incoraggiante a casa nostra? Alcuni settori manifatturieri si stanno riprendendo. Se gli imprenditori crederanno nella ripresa, dovranno investire nell’ammodernamento degli impianti, dopo anni di blocco degli investimenti. Per questo sarà fondamentale LA nuova legge Sabatini (per il sostegno agli investimenti in macchinari, ndr) approvata dal governo Letta. Come accaduto nel 1993, la ripresa potrebbe venire dagli investimenti. Dal lato delle famiglie, invece, la legge di Stabilità 2015 potrebbe esser l’occasione per chiarire definitivamente le regole fiscali. E magari attuare il Sia, il che, riducendo l’incertezza, aiuterebbe a chiudere quel gap di cui parlavamo prima tra fiducia nel Paese e fiducia nella situazione familiare. E forse aiutare a rilanciare i consumi e la domanda interna. Ma molto dipenderà dal messaggio culturale che vorrà dare l’Europa: un ossessione al rispetto dei parametri economici fine a sé stessa o un’attenzione al futuro sostenibile dei suoi cittadini? Con altri economisti (Peter Bofinger, Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz, ndr) è proprio quello che abbiamo chiamato in un testo scritto a più mani «Il dilemma esistenziale dell’Europa»..