Attualità

Vita. Quel battito nel grembo materno (di una migrante) sul molo di Lampedusa

Marina Corradi giovedì 30 marzo 2023

La prima è stata una giovane donna del Camerun, dell’età forse in cui le nostre figlie vanno ancora a scuola. La pelle riarsa dai giorni in mare, e scura, com’è delle figlie dell’Africa. Una giovane donna africana sfinita da quel viaggio – il deserto interminabile prima, poi il mare, mai visto, nero di notte come l’inchiostro. Ma, lei aveva un figlio nel grembo, da poco più di tre mesi – a guardarla non si vedeva ancora. E da pochi giorni a Lampedusa c’è un Posto di primo intervento con una macchina per le ecografie. Così alla giovane migrante è stato chiesto, attraverso un interprete, se voleva vedere come stava il bambino. Lei dapprima non deve avere capito: vedere il bambino? E come? Al suo paese ci sono solo, per i figli, al nono mese, le vicine di casa, a fare da ostetriche.

Forse la donna ha avuto un po’ di paura davanti a quella scatola di acciaio sormontata da un grande schermo scuro. Ma il medico era gentile, la sonda sul ventre passava delicata. Ed ecco: un battito, netto, ritmico, costante. Spalanca gli occhi la madre, capisce senza bisogno di parole: è il cuore di suo figlio, quello.

Per le donne quel battito è l’istante in cui un figlio ancora soltanto pensato, sognato, si fa vero, si fa concreto. Ma quanto più stupefacente dev’essere quel tonfo gentile, per una ragazza partita da un villaggio dell’Africa. «Una profonda commozione», ha raccontato all’Ansa il medico che ha fatto l’ecografia, forse anche lui intenerito dall’incrocio, sotto ai suoi occhi, fra lo spazio e il tempo, fra il terzo mondo più povero e la tecnologia degli ultrasuoni.

Poi sullo schermo nero, la donna avrà visto nel buio dell’utero il feto rannicchiato su sé stesso. La testa, le braccia, le minuscole mani. Gli occhi di quella madre vedevano sbalorditi ciò che credeva, da sempre, invisibile - un figlio, ancora ben lontano dal venire al mondo. In qualche modo invidiamo quello sbalordimento, quel trovarsi di fronte di colpo, e come nuda di ogni ragionamento, a un’evidenza incontestabile: eccoti, sei mio figlio, sei vivo. Da noi qui in Occidente l’ideologia è spesso tanto più forte della realtà, che il dato oggettivo può apparire secondario ( l’ostilità alla realtà del dato, al «dato di natura», disse Hannah Arendt, è una caratteristica dell’uomo contemporaneo).

La ragazza del Camerun questo non lo sa. Sente il cuore, riconosce la sua creatura viva. Piange, forse, nel pensare a ciò che lei e quel figlio hanno superato – la sete, la fame, il mare –, a quanto audacemente lei ha osato sperare? Il cuore batte come un piccolo ordinato motore, è forte quel bambino che ha resistito tanto.

Dopo la mamma del Camerun nell’ambulatorio di Lampedusa tocca a tre ivoriane. E di nuovo il ben ritmato contrarsi di perfetti cuori di pochi millimetri. Sicuri, però, regolari: destinati a una lunga vita. Giovanissima vita in questo vecchio Continente. (Alla natura non importa il colore della pelle: aborre il vuoto, lei, e ha sentito prima di noi i silenzi dei nostri cortili).

E così in un ambulatorio dell’isola all’estremo Sud dell’Europa la vita, antica come il mondo, si rivela alle madri migranti, fotografata dalla tecnologia. Che sussulto, che bagliore in quegli occhi di giovani donne forti e stremate, all’evidenza: eccoti, sei mio figlio. Che nostalgia, in chi sta a guardare, di quella limpidezza di sguardo, di quel semplice riconoscimento di una realtà trasparente. I “clandestini”, gli “invasori”: raramente pensiamo che possano venire a ricordarci qualcosa.