Attualità

L'INTERVISTA. «Quei prematuri lasciati morire dopo gli aborti»

giovedì 29 aprile 2010
I caso del neonato prematuro sopravvissuto per un giorno intero a un aborto effettuato a 22 settimane di gravidanza per malformazione, all’ospedale "Nicola Giannettasio" di Rossano Calabro, ha suscitato molto clamore e indotto nuovamente una riflessione su vari aspetti legati all’applicazione della legge 194. Ma per capire cosa è successo si deve partire dall’assunto che non si tratta di un evento eccezionale perché, in casi come questo, quando cioè l’aborto avviene oltre la metà del periodo fisiologico della gestazione, può accadere che il feto nasca vivo. Ne parliamo con Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli di Roma. Professor Noia, possiamo affermare che ciò che è successo nell’ospedale calabrese fa parte di un fenomeno più esteso?«Sì, purtroppo non è un caso isolato, ho sentito molte altre volte che i feti non vengono praticamente assistiti, non rispettando la stessa legge che impone la rianimazione quando mostrano segni di vitalità. Ma questo triste episodio offre lo spunto per fare alcune importanti considerazioni».Su cosa, dunque, è opportuno riflettere?«L’enorme progresso scientifico e tecnologico degli ultimi decenni ha cambiato totalmente lo scenario della medicina perinatale. Più del 10% dei piccoli nati a sole 22 settimane di gestazione riesce a sopravvivere. E per quelli che sono definiti neonati di "incerta vitalità", cioè con un’età gestazionale compresa fra le 22 e 25 settimane, la sopravvivenza può arrivare fino all’80% via via che le settimane aumentano. La legge 194 non tiene conto di questa evoluzione perché all’epoca si pensava che un bambino sotto le 25 settimane non avesse alcuna possibilità di sopravvivere dopo la nascita. Allora, per aggirare l’ostacolo, si adottano altre soluzioni».A cosa si riferisce?«La Società italiana di ginecologia e ostetricia raccomanda di effettuare l’ecografia morfologica a 19-21 settimane anziché a 20-22, anticipando l’eventuale diagnosi di malformazioni fetale, non considerando che la diagnosi tanto più è esatta quanto più si lascia passare il tempo. Queste linee guida nascono dal tentativo di andare incontro alle donne e causare, in caso si decida di interrompere la gravidanza, il minor disagio psicologico possibile. In realtà è una dinamica fortemente contraddittoria perché non è convalidata dai dati offerti dalla letteratura scientifica: sono proprio le donne che decidono di abortire i soggetti che nel tempo sviluppano tre volte di più sindromi depressive o disordini psichici. La scienza ostetrica non deve essere subordinata quindi a politiche sanitarie che non risolvono realmente i problemi».Da dove nasce, secondo lei, questo orientamento?«L’informazione, innanzitutto, deve farsi conoscenza altrimenti non è vera informazione. Poi c’è l’aspetto culturale: viviamo in una società che sembra non essere più capace di accogliere la disabilità e mette in atto comportamenti eugenetici: non potendo eliminare la sofferenza, si decide di eliminare il sofferente. Quel neonato si è ripreso tutta la sua dignità da solo, resistendo per quasi un giorno al freddo senza cure e assistenza. Occorre invece dare risposte alla scelta abortiva, più e meglio di quanto si fa oggi».Nella sua esperienza quali reazioni suscitano episodi come quello di Rossano Calabro?«Il personale sanitario non rimane indifferente, molti infermieri e medici rimangono scioccati. Andrebbero quantomeno effettuate le autopsie sui feti abortiti per stabilire l’esattezza delle diagnosi effettuate».