Attualità

LAMPEDUSA. «Quei bimbi, sfiniti e affamati, li sentiamo un po' nostri»

Alessandra Turrisi lunedì 22 luglio 2013
Il primato nell’accoglienza della vita, in tutte le sue forme, in tutti i suoi colori. Il cuore dei lampedusani è caldo come il sole africano che batte su quell’isola sferzata dal vento nel Canale di Sicilia. Gli abitanti delle Pelagie lo hanno dimostrato al mondo negli ultimi anni, caratterizzati dal continuo arrivo di migranti dalla costa sud del Mediterraneo. Hanno aperto le loro case, i loro bagni, le loro cucine alla storia che aveva deciso di bussare alla loro porta, con semplicità e generosità.Forse perché hanno sempre avuto amore per la vita. Fino a qualche anno fa Lampedusa aveva un tasso di natalità molto elevato. «Questo fa capire la propensione dei lampedusani ad accogliere e custodire la vita», fa notare il parroco di San Gerlando, don Stefano Nastasi, a poche settimane dalla visita di Papa Francesco. Un esempio? L’incontro coi bambini dei migranti, trattati come se fossero i propri. «Gli abitanti di quest’isola hanno una capacità straordinaria di mettersi dalla parte dell’altro. Per questo darei un premio, perché così cadono tutti i pregiudizi, si è tutti sullo stesso piano».Nei momenti più difficili del flusso migratorio, quando i barconi venivano soccorsi in mare a rotazione continua, arrivavano numerosi bambini. Dopo viaggi drammatici in balìa delle onde, quei piccoli avevano diritto a un po’ di odore di casa. «Una domenica le mamme della comunità andarono dalle donne giunte con i loro piccoli sui barconi – racconta don Stefano –. Prepararono da mangiare per loro, offrirono aiuto ai bimbi e la cosa bellissima è che quelle donne, venute da chissà dove, ebbero fiducia». L’amore di madre non ha confini e per i bambini, soprattutto quelli a rischio, scatta un moto di tenerezza in più. Anche i migranti devono percepirlo, perché sono infinite le richieste giunte con semplicità agli abitanti dell’isola. «Nel 2008 arrivò una donna nigeriana cristiana – continua don Stefano –. Aveva promesso che se lei e la sua bambina nata in Libia si fossero salvate, in qualsiasi luogo fossero approdate, avrebbe subito chiesto il Battesimo. Si chiamava Sharon la piccola, la battezzammo in chiesa e chiedemmo alla mamma di aggiungere il nome di Francesca, che era il nome del nostro nuovo vescovo, da poco nominato ad Agrigento».Piccole storie di straordinaria accoglienza, come quelle che hanno fatto scalpore nei 55 giorni terribili dell’inverno 2011, quando oltre 6 mila migranti si ritrovarono accampati sulle collinette e per le strade del paese, quando le istituzioni non sapevano cosa fare e i barconi squassati continuavano ad arrivare dalle coste nordafricane senza interruzione, e i parrocchiani di San Gerlando si rimboccarono le maniche e aprirono le loro case ai tunisini, desiderosi solo di una doccia e di un materasso. «Più li aiutavamo, più eravamo felici di farlo, nonostante qualcuno ci criticasse. Ma non riuscivamo a fermarci», ha raccontato Loredana, una delle volontarie, dopo quei giorni concitati.Tra le tante avventurose vicende, quella di Omar le batte tutte. Per 6 mesi, un ragazzo di 19 anni fuggito dalla Tunisia e bisognoso di cure speciali e di affetto, ha vissuto nella casa di Raimondo e Renata Sferlazzo assieme ai loro due figli. Anche il dottor Pietro Bartolo, della guardia medica di Lampedusa, lo ha preso in carico per un periodo. Omar è stato cresciuto da una cugina, cristiana, che sin da bambino gli ripeteva «se ti dovessi trovare in difficoltà nella vita, vai in una chiesa. Lì qualcuno di aiuterà». E così ha fatto. Sbarcato a Lampedusa assieme ad altre migliaia di persone, non riusciva a sopportare l’idea di stare con quella folla per strada o nell’accampamento. Omar si è nascosto nelle campagne e un giorno, gracile come un bastoncino, ha bussato alla parrocchia. Da quel momento una catena di solidarietà. Oggi Omar, assistito dalla Comunità di Sant’Egidio, è diventato mediatore culturale ed è voluto tornare a Lampedusa. Lì c’è la sua casa.