Attualità

Campagna ambigua. Pubblicità gender, «ambiguità per vendere»

Roberto I. Zanini mercoledì 7 ottobre 2015
Che la pubblicità cavalchi l’onda è cosa risaputa. In certi casi la cavalca così bene che non si comprende più se a guidare sia l’onda o la pubblicità stessa. In questo senso l’omosessualità è un target pubblicitario da tanto tempo. Così come ci sono marchi, soprattutto di cosmetici e di moda, che da anni ricorrono all’ambiguità di genere. Quello che sta facendo il marchio Diesel in queste ultime settimane è un salto ulteriore: l’ambiguità è mostrata nell’immagine (la sessualità dei due protagonisti è camuffata e indistinta), ma lo slogan fa totale riferimento al gender, anzi, per essere più precisi, alla "neutralità di genere". Viene spontaneo chiedersi se si tratta di un riferimento puramente ideologico, oppure di una "utilità commerciale". Parlandone con due esperti di mass media e di comunicazione sociale emerge una risposta molto più complessa e, se si vuole, più inquietante.Secondo Alberto Contri, che insegna Comunicazione sociale allo Iulm, questo tipo di pubblicità agisce come «una sorta di avallo del tentativo ideologico di abolire il genere, perché per sua natura la pubblicità si adegua ai mutamenti sociali aderendovi e rafforzandoli». È del resto evidente che ci sia una quantità di grandi marchi che seguono questo trend. Al di fuori dei marchi della moda, per esempio, lo fa Ikea, lo fa Barilla. Anzi, si può dire che il marchio italiano sia l’evidenza, come ha annotato in un’inchiesta del novembre scorso il Washington Post, di come sia ormai diventato «tossico per un’azienda essere considerata poco amichevole verso i gay». Tanto che, dopo le polemiche seguite alle affermazioni di Guido Barilla che nel 2013 aveva detto di non ritenere opportuno per il suo marchio fare pubblicità con gay, oggi soprattutto negli Stati Uniti, Barilla è diventata leader delle politiche in favore delle comunità Lgbt creando un apposito settore strategico interno all’azienda.Ma dov’è, allora, la novità di Diesel? «La lobby gay – spiega Contri – è mediaticamente forte e molto rumorosa, ma non ha gli stessi numeri dal punto di vista del mercato. Le aziende hanno capito che devono tenersela buona, ma non possono sbilanciarsi troppo». Così ecco la furbata della Diesel «con una pubblicità che vuole appositamente apparire neutra nel genere e dice a tutti: noi non prendiamo posizione. Per noi è indifferente il genere. Anzi: sei davvero moderno se non parteggi per nessun genere. Tu, consumatore, scegli per te quello che vuoi essere. Per questo i due ragazzi della pubblicità sono ambigui. Possono essere questo o quello, indifferentemente». Il messaggio che ne emerge è evidente: «Essere ambigui è bello. Ambiguità è la vera modernità. Il genere non esiste più».Sono le stesse radici antropologiche dell’umanità a essere messe in discussione. In questo senso il ragionamento di Ruggero Eugeni, docente di Semiotica dei media alla Cattolica di Milano, giunge alle stesse conclusioni, ma affrontando la questione sotto l’aspetto dei new media e della crescente confusione fra ciò che è naturale e ciò che è artificiale, virtuale. «La linea che distingue le due realtà è sempre meno evidente. La teoria gender è in qualche modo un riflesso o, se si vuole, un frutto, di questa nebulosità, anzi del progressivo superamento della distinzione fra reale e virtuale. Viviamo in ambienti ibridi in cui i legami sociale e affettivi possono spesso fare a meno della fisicità. La stessa fisicità si adatta alla virtualità. Noi naturalizziamo moltissimo il rapporto con i nuovi media». Il tempo in cui il rapporto col mass media fondava sulla consapevolezza della distinzione fra l’uomo e la macchina è ormai passato remoto. «Oggi – sottolinea Eugeni – i new media non sono nemmeno più un’appendice, sono parte di noi. Anche le biotecnologie, le protesi ipertecnologiche ci hanno preparato a questo tipo di relazione con la macchina». Tutto questo «sta portando alla scomparsa culturale delle differenze. Mano a mano che si affievoliscono le caratteristiche identificative della nostra umanità, ciò che è autenticamente umano, svanisce anche il luogo dove si genera la percezione culturale della diversità di genere. Tanto più se dietro a tutto questo si agita l’ideologia che ci vuole padroni del gender. Per cui è l’esperienza soggettiva il criterio unico di legittimazione della scelta di genere. Cioè la teorizzazione della totale plasticità del genere. La deresponsabilizzazione morale rispetto all’origine dell’autenticamente umano».