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L'ANALISI. Le Province: nostri conti buoni Ma la politica le ha già condannate

Paolo Viana sabato 23 marzo 2013
«Vile, tu uccidi un uomo morto». È la battuta che circola nelle Province italiane e sotto il motteggiare amaro dei funzionari c’è del vero. Dopo la quasi-riforma del governo Monti che ha cercato di ridurle e la legge siciliana che le ha sciolte, è diffusa la sensazione che arriverà presto un Maramaldo ad assestare il colpo di grazia al più vulnerabile degli enti politici. Perché, se è pur vero che le Province assommano funzioni che non possono essere cancellate con un tratto di penna - chi si occuperà della manutenzione di cinquemila scuole? e chi tapperà le buche di 130mila chilometri di strade? - è assodato che la maggioranza dei cittadini non sa bene cosa faccia una Provincia. Ha buon gioco, quindi, chi liquida la questione con un «basta agli organismi sciupa-sciupa»: ciò che ha detto il governatore Rosario Crocetta, riportando l’isola al ’46, quando le Province non esistevano. I conti dello Stato dimostrano al contrario che lo spread tra le spese "pazze" e il risparmio promesso dall’abolizione delle province resterà altissimo se, nell’abolirle, non si passerà attraverso una revisione dei compiti e, quindi, delle risorse assegnate a comuni, regioni e Stato. Un percorso lungo, mentre alla politica in crisi d’immagine e di consensi serve subito un agnello sacrificale e le Province, schiacciate tra il peso storico dei Comuni e quello politico delle Regioni, fanno al caso di tutti, di chi promette la rivoluzione e di chi spera di superarla indenne. Solo la Corte Costituzionale può riscrivere il finale di questa storia: in estate dovrà esprimersi circa la costituzionalità del decreto Salva Italia e imprimere una svolta vera al riordino di queste "figlie di nessuno". Perché, se è pur vero che gli italiani non hanno mai capito cosa fosse un ente "intermedio", fino alla legge 142 del 1990 ed all’elezione diretta dei presidenti le Province sono cresciute soprattutto come organi di decentrameno delle Regioni, che hanno delegato loro numerose funzioni di area vasta. «Il nodo è la disomogeneità territoriale di comuni, province e regioni che non permette quelle economie di scala oggi irrinunciabili - precisa Ebron d’Aristotile, vicedirettore generale della Provincia di Pescara e docente di economia dell’azienda pubblica all’Università D’Annunzio di Chieti -Pescara -. Per una riforma efficace occorre definire una dimensione ottimale e funzionale di ciascun livello di governo ed intorno ad essi costruire il nuovo modello organizzativo dello Stato. Mi pare che invece manchi una visione sistemica del problema, che si legiferi sull’onda delle emozioni. Il rischio, invece, è che ci risvegliamo senza province, ma senza sapere  chi e cosa dovranno fare regioni e comuni, cui le loro funzioni necessariamente dovranno essere affidate. Forse una rivisitazione complessiva del sistema delle autonomie eviterebbe soluzioni che potrebbero comportare anche più burocrazia e costi più alti». L’Unione delle Province Italiane, che non ci sta a fare la fine di Francesco Ferrucci, ha diffuso un dossier che mette a confronto la spesa pubblica delle moriture (11 miliardi) con quella dei ministeri e dell’amministrazione centrale (141), della previdenza (311,7) delle regioni (182) e dei comuni (73,3), nonché degli interessi sul debito (86). In pratica, sacrificando le province si ridurrebbe solo l’1,35% della spesa pubblica e neanche tutto. Sempre che non si vogliano dismettere la manutenzione di strade (1,8 miliardi) e (1,8) scuole e la gestione del trasporto locale (1,3), rinunciare al controllo sulle discariche (1) e ai servizi per il mercato del lavoro (1), oppure licenziare il personale (2,1), le economie possibili ammonterebbero a qualche centinaio di milioni. La più cospicua riguarderà i compensi degli eletti, ma, a fronte del Parlamento che spende 439,7 milioni di euro, delle Regioni (800), dei comuni (556) nelle province le indennità assommano solo a 104 milioni (5,5%). Sedici dei quali sono i famigerati rimborsi.A chi maramaldeggia, l’Upi fa notare che i bilanci provinciali hanno già perso 2,1 miliardi tra il 2011 e il 2013: «come chiedere a chi rappresenta solo l’1,3% della spesa pubblica di contribuire al risanamento del Paese tagliando il 25%» sottolinea il direttore generale Piero Antonelli. Che insiste sulla riqualificazione della spesa corrente: quella provinciale è diminuita in cinque anni dell’11%, mentre nelle Regioni è calata soltanto del tre e nei Comuni è cresciuta del cinque. La linea dell’Upi è che si debba agganciare la riforma a una revisione del federalismo italiano. Esattamente quello che è avvenuto in altri Paesi europei, dove i costi della politica "intermedia" sono anche più salati. Se si considera l’incidenza sulla spesa pubblica nazionale, il nostro 1,3% è superato sia dai dipartimenti francesi (5,4) che dai distretti tedeschi (4,2%).