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L'addio a Forlani. Paglia: «La condanna per lui fu frutto amaro di un clima devastante»

Angelo Picariello lunedì 10 luglio 2023

i funerali di Arnaldo Forlani alla Basilica dei Santi Pietro e Paolo

Era gremita la Basilica dei Santi Pietro e Paolo, all'Eur, per i Funerali di Stato di Arnaldo Forlani. A presiedere la celebrazione il presidente della Pontificia Accademia per vita, l'arcivescovo Vincenzo Paglia, concelebrante il vescovo emerito di Roma Paolo Schiavon. In prima fila il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, la vicepresidente della Corte Costituzionale Daria De Petris, il senatore Pier Ferdinando Casini in rappresentanza del Senato, la ministra Anna Maria Bernini in rappresentanza del governo, il leader di Iv Matteo Renzi. Fra i banchi vecchi amici di partito come Vincenzo Scotti, Paolo Cirino Pomicino. C'erano Gianni Letta e Giorgio Mulé di Forza Italia, l'ex segretario dell'Udc Marco Follini, lo storico portavoce di Ciriaco De Mita Peppe Sangiorgi, Marco Gava (figlio di Antonio, leader dc che fu molto vicino a Forlani), Bruno Tabacci, il deputato di Fdi Gianfranco Rotondi, Lorenzo Guerini e Silvia Costa del Pd, il presidente dell'associazione degli ex parlamentari Giuseppe Gargani, presenti in gran numero, con il loro stendardo: Nicodemo Oliverio, Maurizio Eufemi, Mario Tassone, Renzo Lusetti, Giampaolo D'Andrea, Flavia Piccoli Nardelli (figlia dell'ex segretario della Dc), Mauro Fabris, Franco De Luca, per citarne solo alcuni.

Lo ha definito espressione della «buona politica», Paglia, «capace di mettere in releazione mondi doversi. Il Paese ha tanto bisogno di questo», ha aggiunto, definendo l'impegno di Forlani come frutto di «dovere e passione». Si è soffermato, soprattutto, sulla fase molto sofferta che lo vide condannato ed estromesso dalla politica. «Pur nello sconcerto accettò la vicenda giudiziaria con dignità ed equilibrio». Stando ben attento a «non indebolire le istituzioni sulle quali si fonda la vita civile di tutti. Di certo non si è arricchito - ha rimarcato Paglia -, ma visse quella vicenda come il frutto amaro del clima devastante di quegli anni, e la accettò con totale fiducia in Dio. Bevve la cicuta, come disse lui stesso, e considerò la sua uscita di scena come irrevocabile». E, ha aggiunto Paglia, parlando della fine della Dc, «non ha mai condiviso la rottura dell'unità, che considerava un bene supremo. Arnaldo, servo buono e fedele ora prendi parte alla gioia», ha concluso Paglia, tributando a Forlani «l'onore che si deve a un servitore dello Stato». Nel corso della cerimonia, su un lato della basilica, un anziano militante ha tenuto in alto un bandiera bianca con lo scudo crociato rosso e la scritta "Libertas", storico simbolo del partito. Al termine della cerimonia l'uscita del feretro è stata salutata da un lungo applauso.

Il ricordo

Con Arnaldo Forlani – spentosi nella serata di giovedì, a 97 anni, nella sua casa di Roma – dopo Craxi, De Mita e Andreotti scompare l’ultimo protagonista della cosiddetta Prima Repubblica. Sposato con Alma Maria, deceduta il 6 ottobre 2015 a 86 anni, lascia tre figli: Alessandro (per due legislature parlamentare dell’Udc), Marco e Luigi.

Protagonista del mondo del potere senza gran voglia di esercitarlo, tanto meno di esibirlo, amante più della quiete e della concordia che delle battaglie. “Coniglio mannaro” lo definì il politologo Gianfranco Piazzesi, usando una sorta di ossimoro tratto dalla letteratura per mettere insieme il ruolo decisivo assunto in snodi cruciali e cruenti della vita politica a dispetto, appunto, della sua avversione alla battaglia.

Originario di Pesaro, vestì con onore la casacca della prestigiosa compagine locale, la Vis Pesaro, militando fino alla serie C, e nello sport anticipò in qualche modo le caratteristiche che lo avrebbero reso protagonista in politica: non attaccante e nemmeno difensore, fu centrocampista ma non regista, piuttosto uomo di raccordo fra i reparti. Chi scrive, in relazione all’uscita del volume Potere discreto, frutto di un’intervista con Sandro Fontana (ex direttore del quotidiano della Dc Il Popolo) e Nicola Guiso, ebbe modo di sperimentare un tratto di rara signorilità vedendosi recapitare il volume in redazione con una bella dedica a recensione già avvenuta e non prima, come accade di solito per sollecitarla.

Non mancarono le amarezze, a cui fa riferimento il delfino Pier Ferdinando Casini. Il doppio colpo che lui, non amante della battaglia, si vide infliggere prima dalla politica, finendo vittima nel 1992 dei franchi tiratori nell’elezione a presidente della Repubblica (un pericolo scampato, lo definirà), e poi dalla magistratura, l’anno successivo, a seguito di un lungo interrogatorio trasformato in gogna mediatica in nome del teorema «non poteva non sapere» esercitato dal pm Antonio Di Pietro.

Un mite, per niente amante del protagonismo e del potere, entrato nonostante ciò o forse proprio in virtù di ciò, nella mitologia democristiana. Dopo essere stato per molti anni il principale collaboratore di Amintore Fanfani nella corrente Nuove Cronache, la abbandonò dando poi vita agli inizi degli anni Ottanta con Antonio Gava e Vincenzo Scotti alla corrente Azione Popolare conosciuta anche come Grande Centro. Il suo nome è leggendariamente accostato a una parola simbolo del lessico Dc, il famoso «preambolo», noto proprio come «preambolo Forlani», che segnò l’archiviazione, all’inizio degli anni Settanta, della «strategia dell’attenzione» verso la sinistra teorizzata da Aldo Moro con le famose «convergenze parallele». Una maggioranza interna anticomunista che lo portò una prima volta alla segreteria della Dc nel quadriennio 1969-1973, per tornarci nel triennio 1989-1992, all’epoca del Caf, l’acronimo che indicava l’asse con Giulio Andreotti e Bettino Craxi, che chiuse la lunga stagione demitiana alla guida del partito e per una fase più breve anche del governo. Mitologica anche la sede in cui l’intesa (il “patto del camper”) fu sancita, un camper, appunto, di proprietà dell’imprenditore barese Tommaso Fidanzi usato a mo’ di ufficio da Bettino Craxi durante il congresso del Psi che si teneva all’ex Ansaldo di Milano, nel maggio 1989.

Ne scaturì in breve tempo l’uscita di scena di De Mita anche da Palazzo Chigi, dopo la perdita della segreteria di Piazza del Gesù. In realtà l’operazione fu incruenta proprio grazie alla sua impronta forlaniana. De Mita conservò infatti la presidenza del partito sostenendo Forlani (che fu eletto alla segreteria con consenso quasi unanime) e conservò anche la direzione generale della Rai, ancora saldamente in mano a Biagio Agnes, molto legato al leader di Nusco e ultimo interprete di un monopolio Rai ormai insidiato dall’avanzante corazzata privata di Silvio Berlusconi. La rottura vera fra Caf e sinistra Dc avvenne nel luglio 1990, quando i ministri della sinistra Dc (fra cui Sergio Mattarella, che era all’Istruzione) uscirono dal governo Andreotti per divergenza sulla legge Mammì che attribuì le frequenze televisive con una sorta di sanatoria per il gruppo Fininvest.

Uno scenario che accanto all’avvento di “Mani pulite” segnò l’ascesa dell’astro di Silvio Berlusconi, con il quale Forlani mantenne rapporti cordiali, senza mai confluire, però, nella sua iniziativa politica. Per Forlani, fra la candidatura ai vertici della Repubblica e la sua “rottamazione” politica ad opera dei magistrati, fu un attimo. Presidente del Consiglio lo era stato per una breve stagione fra il 1980 e il 1981, e nel 1992 si presenta per lui la grande occasione di andare al Quirinale. Il risultato gli sfuggì per un niente, meno di 30 voti, ma lui decise – come era nel suo carattere – di non insistere, senza imbastire processi interni per i voti venuti a mancare. L’emozione collettiva seguita alla strage di Capaci affrettò la ricerca di una soluzione diversa, e fu eletto Oscar Luigi Scalfaro, un ex magistrato eletto al Colle nel quadro di una “rivoluzione” appena iniziata segnata dalle inchieste dei giudici milanesi.

Forlani presagì i rischi, nell’estate del 1992 – in febbraio c’era stato l’arresto di Mario Chiesa, in aprile la Dc e i partiti tradizionali avevano iniziato ad accusare il colpo dell’impopolarità alle elezioni politiche – fu ospite del Meeting di Rimini insieme a Ciriaco De Mita. I due, mettendo da parte le rivalità, fecero un accorato appello a restare uniti, difendendo una tradizione politica promossa dalla storia nella fase di ricostruzione del Paese e nella collocazione internazionale, con il Muro di Berlino caduto che aveva invece archiviato il riferimento internazionale del comunismo. Fu il coronamento di una lunghissima fase di stima e reciproco riconoscimento fra i due, pur nella diversità di collocazione interna, iniziata al convegno di San Ginesio, nelle Marche, nel settembre del 1969, con il quale Forlani e De Mita sancirono un patto generazionale che avrebbe aperto la strada ai “gemelli di San Ginesio” portando in breve tempo il primo alla segreteria della Dc e il secondo alla vicesegreteria.

Ma quello come altri appelli non bastarono a salvare la Dc. Nel processo Enimont Forlani ricevette un avviso di garanzia e venne condannato a due anni e quattro mesi di reclusione per finanziamento illecito. La pena comportò alla fine l’affidamento al servizio sociale ed espiata attraverso la collaborazione con la Caritas. Dirà di ritenere ingiusta la condanna inflittagli e di accettarla in spirito socratico come la sua cicuta da bere. Celebri e simboliche resteranno le immagini impietose di un leader politico in grande imbarazzo nel doversi difendere davanti alle telecamere per movimenti di denaro mai sollecitati e men che meno gestiti ma di cui venne chiamato a rispondere in nome di una sorta di “responsabilità oggettiva”. Una gogna mediatica immeritata e ingiusta per un leader politico che ha sempre esercitato il suo impegno politico con «dignità e generosità», gli dà atto Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Partito popolare, pur avendo avuto nella Dc collocazioni diverse.

Aveva appena fatto in tempo ad apprendere della scomparsa di Silvio Berlusconi, Forlani. «È morto Berlusconi, mannaggia», l’unico commento che gli viene attribuito.