Attualità

Prostituzione. La ricca Milano chiama schiave dall'Est Europa

Lorenzo Rosoli sabato 8 febbraio 2020

Aumenta il numero di donne romene e albanesi prostituite sulle strade di Milano

Vengono sempre più spesso dall’Est Europa le donne costrette a prostituirsi sulle strade di Milano: romene e albanesi principalmente, controllate da un racket spietato. Appare in calo, invece, il numero delle vittime di sfruttamento originarie della Nigeria. Una buona notizia? Solo a prima vista. In realtà, sempre più di frequente rimangono intrappolate nei campi di detenzione libici, dove vengono schiavizzate e sfruttate, o vengono prostituite in altri Paesi africani. Così dicono i dati – e l’esperienza sul campo – dell’unità di strada «Avenida» di Caritas Ambrosiana, che due volte la settimana esce tra periferia e hinterland a offrire loro un contatto, un aiuto. E una chance di liberazione dalle catene del racket. Come hanno fatto le 19 donne, tutte nigeriane, entrate nella rete di protezione nell’ultimo anno con il sostegno della Caritas.
Nel 2019 Avenida ha "intercettato" 197 donne sui marciapiedi di Milano. Nel 2018 erano state 235. Romene e albanesi, «storicamente le più presenti», ricorda un comunicato Caritas, «passano, le romene, dal 43% nel 2018 al 45% nel 2019» sul totale delle donne contattate, mentre «le albanesi passano dal 22% al 25,9%» e insieme continuano a essere «la maggioranza delle donne costrette a prostituirsi in strada». Un incremento che, assieme al turn over, «fa credere agli operatori che il racket continui a operare indisturbato». Cambiato è, invece, il peso percentuale delle nigeriane fra i "contatti" di Avenida. «Anche nel passato non sono mai state la maggioranza», sottolineano in Caritas, e fra 2018 e 2019 sono passate dal 23% al 14,2%. Tutto questo accade «a dispetto dell’enfasi posta sui gruppi criminali africani e i loro legami con gli scafisti libici», annota il comunicato – diffuso per la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta – che restituisce un ritratto prezioso sullo scenario milanese, sia pur parziale (resta fuori, ad esempio, la prostituzione indoor, in appartamenti o centri massaggi). «La diminuzione della presenza di donne nigeriane si spiega con una diversa strategia dei gruppi criminali che gestiscono il traffico – osserva suor Claudia Biondi, responsabile Area Tratta di Caritas Ambrosiana –. Se prima del caos libico le donne nigeriane venivano mandate in Italia con normali voli aerei ed entravano con visti turistici, dall’inizio della guerra i clan criminali hanno trovato più conveniente accordarsi con gli scafisti e utilizzare le rotte dell’immigrazione. Ora, invece, hanno capito che è più facile farle prostituire nelle miniere d’oro dell’Africa Sub-sahariana, mentre quelle che non riescono più ad attraversare il Mediterraneo restano prigioniere dei centri di detenzione libici dove subiscono violenze terribili».
Per queste donne, Milano può essere luogo di rinascita. Sono tutte nigeriane, infatti, le 37 ospiti delle case protette della Caritas. E sono ben 19, come detto, quelle entrare solo nell’ultimo anno nei percorsi di protezione. Ma resta la sfida di aiutare anche le altre. «È vero – commenta Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana – che i trafficanti nigeriani hanno sfruttato le rotte migratorie per far giungere in Italia le schiave del sesso, come abbiamo sempre denunciato. Ma chiudere i porti non risolve il problema. Al contrario lo sposta altrove e aggrava sofferenza e sfruttamento delle donne. Lo sfruttamento – insiste – si combatte con la repressione dei trafficanti e offrendo alle donne occasioni d’integrazione, come dimostra l’attività dei nostri servizi. Invece l’enfasi sui barconi rischia di far passare in secondo piano un fenomeno rilevante che non si è mai interrotto e continua ancora: la tratta delle bianche in mano a organizzazioni criminali forse meno strutturate ma non meno violente di quelle africane che hanno continuato ad agire indisturbate in questi anni attraverso i confini interni dell’Europa».

Caritas, un'«unità di strada» per spezzare le catene

«Ci sono anche uomini fra i 15 volontari che assieme alle nostre due educatrici permettono all’unità di strada Avenida di eseguire due uscite alla settimana in orario notturno e di farsi, così, incontro alle donne prostituite tra periferia e hinterland di Milano. È importante offrire a queste donne un modello positivo di uomo. È importante mostrare che gli uomini non sono solo sfruttatori o clienti», scandisce Sabrina Ignazi, dell’Area Tratta e prostituzione di Caritas Ambrosiana.
Ci sono molte catene da spezzare, per aiutare queste donne a lasciare la strada: «L’ignoranza, cioè la non conoscenza di servizi e normative che le possono aiutare – spiega Ignazi –; il timore, nel contatto con le istituzioni, di essere riconosciute come "clandestine" e di essere espulse dall’Italia; il clima di isolamento, sospetto, paura, minacce e violenza in cui le chiude lo sfruttatore. Che nel caso delle nigeriane, è una donna. E c’è anche la paura di minacce e ritorsioni contro i familiari in madrepatria, e il vincolo di un debito da pagare all’organizzazione che si è fatta carico dell’arrivo in Italia. E il meccanismo dello sfruttamento spesso si fa intensissimo e intollerabile».
È per aiutare le donne prostituite e sfruttate sulle strade di Milano che dagli anni ’90 Avenida si fa loro incontro. «E il primo passo è proprio rompere l’isolamento – e un prima occasione può essere l’accompagnamento ai servizi sanitari per "presidiare" e proteggere la loro salute – e così creare spazi di relazione liberi da sfruttatori e clienti, perché possano arrivare a decidere di chiedere aiuto». Ignazi lavora al Sed (Servizio disagio donne), il servizio sociale di Caritas Ambrosiana che si occupa dell’ascolto, dei colloqui e della presa in carico delle donne, a questo punto invitate ad aderire a un progetto personalizzato che le porti verso l’emancipazione e l’autonomia, e ospitate in strutture protette, in luoghi segreti (due comunità e cinque appartamenti gestiti da cooperative della "rete" Cartitas) dove riprendere in mano la propria vita. «Imparare o migliorare la conoscenza dell’italiano, proseguire o completare gli studi, soprattutto imparare un mestiere ed inserirsi nel lavoro: questo, insegna l’esperienza degli anni, è decisivo perché queste donne possano arrivare ad una piena autonomia – sottolinea Ignazi –. L’alternativa è tornare nella precarietà e ricadere in percorsi di sfruttamento».
Le 37 donne ospiti delle case protette della Caritas sono tutte nigeriane. Due terzi sono rifugiate politiche, un terzo ha ottenuto il permesso di soggiorno con l’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione (il decreto legislativo 286 del 1998) entrando in percorsi protetti di fuoriuscita dallo sfruttamento. «Forse per questo tutte le nostre ospiti sono nigeriane. Per le romene, che sono comunitarie, e le albanesi, che possono entrare in Italia con un visto rinnovabile ogni tre mesi, il permesso di soggiorno è una "offerta" molto meno allettante». Ecco, dunque, la sfida: trovare vie e strumenti per «agganciare» anche loro. «L’aumento di romene e albanesi, con il calo delle nigeriane, è la tendenza da almeno un paio d’anni a Milano come nel resto d’Italia. E si tratta di donne ad elevata "mobilità", che il racket, anche per motivi di "rinnovamento" dell’offerta di mercato, sposta spesso tra i vari Paesi europei, incrementando così il loro isolamento».