Attualità

L’analogia impossibile. Proietti: il «lasciatemi andare» di Wojtyla non era certo una rinuncia alle terapie

Salvatore Mazza giovedì 26 febbraio 2009
Giovanni Paolo II, o l’analogia impossibile. Per quella sua frase sul letto di morte, "La­sciatemi andare dal Signore", da al­cuni – ostinatamente – letta come un "no" a nuove cure, un rifiuto di ulteriori intervento sul suo corpo già spossato, arrivato alla soglia dell’ul­tima porta. Quasi: ' Lasciatemi an­dare', ovvero: lasciatemi morire in pace, magari di fame e di sete. Un’as­similazione che, nel dibattito di que­sti giorni, fa orrendamente comodo a qualcuno. Troppo comodo. Ma, «se ci fosse stata una terapia con una ra­gionevole possibilità di efficacia, noi l’avremmo proposta, e sono con­vinto che il Santo Padre l’avrebbe ac­cettata, come era stato nel caso del­la tracheotomia. Condividendo con noi medici ogni decisione, come sempre» . Ma una terapia non c’era. Il profes­sor Rodolfo Proietti, ordinario di A­nestesiologia e Rianimazione all’U­niversità Cattolica del Sacro Cuore di Roma, quei lunghi giorni fino al 2 aprile del 2005 li ha vissuti tutti, qua­si ora per ora, accanto a papa Wojty­la. Fu lui a praticargli la tracheoto­mia « che in quel momento – rac­conta – era l’indicazione necessaria a salvargli la vita» . Nessun accani­mento terapeutico: « Nessuno di noi sa poi in realtà quanto tempo di vi­ta si va a guadagnare » , però « riu­sciamo invece a identificare qual è il momento dell’agonia, in cui noi non possiamo più far nulla per risolvere il problema acuto e quin­di per impedire la morte. È in quel momento che il medico ha il dovere di non proporre terapie inutili». Che, infatti, non furono proposte. E, dell’' analo­gia' che qualcuno insiste a proporre, ora dice: « Co­me si fa a paragonare una fase di agonia a condizio­ni patologiche croniche?». Professore, cominciamo proprio da quella frase. La ricorda? Ricorda il contesto in cui fu pronunciata? Innanzitutto va specificato che era rivolta non ai medici, ma a suor To­biana. Devo specificare che il Papa, sia durante i ricoveri al Policlinico Gemelli, sia durante la fase finale nella quale è stato curato e assistito nell’appartamento, non ha mai ri­fiutato le cure proposte dai medici, e ha sempre condiviso con loro il programma terapeutico. Così come va precisato anche che in realtà, nel­l’appartamento, erano presenti tut­ti gli strumenti terapeutici e di mo­nitoraggio, e medici e personale di assistenza erano sempre presenti; di fatto quell’appartamento, da un punto di vista sanitario, era l’equi­valente di una stanza di rianimazio­ne o di terapia intensiva. Un comunicato della Sala Stampa annunciò tuttavia che il Papa ave­va rifiutato un nuovo ricovero. Anche questa fu una decisione con­divisa con i medici. Il trasferimento al Gemelli si sarebbe reso necessa­rio soltanto se fosse stata proposta o si fosse resa necessaria una terapia che lì non si sarebbe potuta mette­re in atto, per esempio una terapia chirurgica, che chiaramente non po­teva essere eseguita nell’ambito del­l’appartamento. Come s’era dato il caso in occasione della tracheoto­mia. Quindi la decisione di non tor­nare al Gemelli non era legata a un rifiuto di terapie da noi proposte, ma alla consapevolezza che nell’appar­tamento del Santo Padre avevamo tutti gli strumenti idonei per ese­guire le cure anche di carattere in­tensivologico. Non vi fu una proposta del tipo: "Santità, dobbiamo tornare al Gemelli", se­guita da un rifiuto? Assolutamente no. Ci fu u­na condizione di scelta del luogo dove il Santo Padre doveva essere curato. E dunque, tornando alla famosa frase, lei come la legge? Per come la interpreto io, fu il segno esplicito della consape­volezza del Santo Padre che la mor­te si stava avvicinando, e oramai e­ra una morte attesa. Avvertiva la con­sapevolezza che i medici, nono­stante le cure continuative, nulla a­vrebbero potuto fare per fermare questo evento. Di certo non è stato il chiedere a un medico ' lasciatemi andare', in risposta a una nostra proposta di terapia. È stato assistito con tutte le cure dovute, nella con­dizione patologica in cui si trovava, nelle ragionevoli possibilità della medicina. V’è stato un momento in cui s’è af­facciata la "tentazione", diciamo co­sì, di fare qualcosa in più? Intubar­lo, attaccarlo a qualche macchina... Nel momento in cui il medico si ren­de conto che ormai la malattia ha raggiunto la sua fase terminale, che nonostante le terapie praticate non vi è più miglioramento, non vi è ri­sposta, in quel momento il medico ha il dovere di comprendere che la morte è inevitabile, che il processo patologico è diventato irreversibile. È quanto avvenuto con il Santo Pa­dre: in quel caso sono state prose­guite tutte quante le terapie utili per alleviare le sofferenze, ma non si so­no praticate altre terapie che sareb­bero risultate terapie futili o inutili, esclusivamente finalizzate a ritar­dare la morte di qualche minuto, o di qualche ora. Così come non c’è mai stato un rifiuto del Papa a una proposta terapeutica, da parte dei medici curanti non è mai venuta la proposta di una terapia inutile, men­tre la cura ' possibile' è stata co­munque sempre garantita fino alla fine. Facciamo un passo indietro, a un suo accenno di poco fa. Come ac­colse il Papa la proposta della tra­cheotomia, che evidentemente gli avrebbe tolto l’uso della parola?Questo in effetti fu un momento im­portante, anche per far capire quan­to il Santo Padre non solo non ha mai rifiutato le procedure proposte dai medici, ma sia anche arrivato ad ac­cettare un atto terapeutico, se ci si pensa bene, per lui molto pesante, che poteva compromettere una del­le funzioni fondamentali nell’eser­cizio del suo ministero, ovvero la possibilità di parlare. Lui ha accet­tato anche questo sacrificio, ben sa­pendo quale sarebbe stato il prezzo da pagare. In quel momento quel­l’intervento era l’unica possibilità che noi avevamo per poter salva­guardare la sua vita, per impedire che un’insufficienza respiratoria a­cuta potesse determinarne la mor­te. Lui è stato capace di accettarla. Così come successivamente accettò anche il sondino per l’alimentazio­ne. Sì. Lui poteva alimentarsi normal­mente, pur se con una certa fatica. Ma c’erano dei momenti in cui que­sto non era possibile, e in quei mo­menti accettava anche il posiziona­mento del sondino nasograstico nei tempi necessari per poterlo alimen­tare. Consapevolezza fino alla fine? Sì, certo. Che nonostante le terapie la morte ormai stesse arrivando era una cosa che sapevano tutti, il San­to Padre per primo. Tutto il mondo sapeva – nella tristezza – che il Papa era entrato in una fase di agonia, cioè in una condizione in cui noi avrem­mo potuto fare qualsiasi cosa, ma la morte era ormai inevitabile. Avrem­mo potuto forse fare qualcosa solo per rimandarla di qualche ora, ma nessuno di noi ha utilizzato pratiche terapeutiche che potessero configu­rare una condizione di accanimen­to terapeutico. Il medico quando si rende conto che è iniziata la fase ir­reversibile dell’agonia, si deve aste­nere.