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Il fatto. «E allora Bibbiano?». Così i populsovranisti usavano il caso per il consenso

Marco Iasevoli mercoledì 7 giugno 2023

Quella maglietta bianca a mezze maniche con la scritta in maiuscolo “PARLIAMO DI BIBBIANO”, con la P e la D in rosso per evidenziare il bersaglio dell’offensiva, il Partito democratico, fa ormai parte della storia del Senato. La indossava, il 10 settembre 2019, nella solennità dell’aula di Palazzo Madama, nel dibattito ad altissima tensione sulla nascita del governo Conte-bis, la senatrice leghista Lucia Borgonzoni. Pochi giorni dopo, il capo politico del Carroccio, Matteo Salvini, ebbe l’ardire di far salire sul palco di Pontida «una bimba di Bibbiano», salvo poi fare mezza retromarcia sia per le proteste dell’opinione pubblica sia perché diverse fonti asserirono che la minore in questione non aveva a che fare con la vicenda giudiziaria. «Era una bambine strappata alla famiglia», aggiustò il tiro l’attuale vicepremier.

In quel momento, per la Lega, l’uso politico di Bibbiano aveva un fine ben preciso: il bersaglio formale era il Pd, ma il bersaglio sostanziale era M5s. Già, perché nella torrida estate 2019, l’estate del Papeete e della frantumazione del Conte-1, i pentastellati giuravano in ogni angolo del Belpaese che mai e poi mai avrebbero composto una maggioranza con il Pd.

«Mai con il Pd, mai con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli», tuonava nel luglio 2019 l’allora plenipotenziario pentastellato Luigi Di Maio mentre il caso iniziava a decollare e quando occorreva opporre un freno all’ipotesi di un ribaltone di palazzo. Il ribaltone, poi, ci fu, e quando in aula la Lega fu messa all’opposizione del Conte-bis, il Carroccio volle mostrare, con la maglietta di Borgonzoni, come gli ex alleati 5s avessero tradito il patto con gli italiani. Anche su Bibbiano.

La Lega, però, chiuso il legame con i grillini, non rimase sola a usare Bibbiano contro gli avversari politici nazionali. La “potenza” della vicenda la annusò anche l’attuale premier Giorgia Meloni, che a gennaio 2020 si piazzò sotto il cartello stradale che indicava l’ingresso nella cittadina emiliana. La leader Fdi, con il volto serissimo, teneva un cartello tra le mani che non lasciava spazio alla fantasia: «Siamo stati i primi ad arrivare. Saremo gli ultimi ad andarcene».

Un messaggio anche all’alleato Salvini. Insomma, a destra si era aperta una vera e propria competizione a chi speculava di più sulla vicenda giudiziaria.

Una battaglia anche mediatica. Perché per lunghi mesi intestarsi la causa di Bibbiano voleva dire prendersi ondate di “like” e “cuoricini” dei social network. M5s, Lega e Fdi hanno fatto incetta di “followers” e ancora oggi non è raro imbattersi in commentatori seriali che sotto i post di partito pongono la domanda-tormentone: «E allora Bibbiano?».

Ieri, con l’assoluzione in secondo grado di Foti, il “solito” Renzi, solito perché è l’unico che ha provato ad ingaggiare una battaglia contro la “fakemocracy” che ha tanto premiato populisti e sovranisti nell’ultimo decennio, ha chiesto conto a Meloni, a Salvini e Di Maio di quanto detto e scritto in passato. L’ex capo 5s, in realtà, è l’unico che, facendo perno sul ruolo assunto nel governo Draghi, ha ammesso i numerosi «errori» compiuti nel nome del consenso populistico. Per la premier e il suo vice, evidentemente, il momento di fare i conti con le esasperazioni del passato non è ancora arrivato. Eppure, una loro parola che ammettesse i rischi dell’uso politico di faccende serissime potrebbe servire da monito e da scudo contro future esagerate speculazioni su casi troppo sensibili per finire su una maglietta.