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Intervista. Patuelli: «Prestiti, moratorie fino a fine anno»

Eugenio Fatigante sabato 3 aprile 2021

Antonio Patuelli, presidente dell'Associazione bancaria.

«Bisogna ricalibrare almeno fino a fine anno tutte le scadenze dei provvedimenti adottati un anno fa, all’esplodere della crisi pandemica che non si pensava sarebbe stata così lunga – è il primo messaggio di Antonio Patuelli, presidente dell’Abi, l’associazione bancaria –. Sono due binari di sostegno all’economia che non possono essere interrotti: le moratorie sui crediti, arrivate oggi alla cifra di 294 miliardi di euro e in scadenza a fine giugno; e i prestiti garantiti, tramite il Fondo di garanzia o la Sace. Sono questioni che abbiamo segnalato con grande anticipo, proporzionale alla loro importanza, e che ho ricordato a Mario Draghi, quando convocò l’Abi il 10 febbraio. Specie tutta la filiera del turismo e dell’ospitalità, settore produttivo primario, è in grave difficoltà: non può essere lasciata a se stessa».

Quali risposte avete avuto sino a ora?

Abbiamo avuto un’infinità di contatti, e riscontri in generale positivi. La partita è più complessa nell’Europa a 27, a cui provvede l’autorità bancaria Eba. Da poco l’Ue ha prorogato al 31 dicembre 2021 la facoltà di concedere garanzie sui prestiti, ora attendiamo che le autorità italiane recepiscano questa indicazione. I consensi ai nostri ragionamenti crescono, speriamo che le decisioni seguano.

Come deve essere la via d’uscita?

Guardi, quanto l’Abi va sostenendo l’ho trovato anche nell’ultimo rapporto del Fmi sulle banche europee. Fra le raccomandazioni, si legge che occorre «mantenere le misure di sostegno a favore dei debitori fino a che la ripresa non si sia ben consolidata. Quando la ripresa avrà preso slancio, i criteri di concessione dovrebbero essere indirizzati verso le imprese con difficoltà di liquidità, ma in continuità aziendale, e verso le famiglie più vulnerabili prevenendo errori di classificazione dei crediti e la crescita del numero di imprese zombie».

Imprese “zombie”?

Sì. Dopo aver ridotto sotto i 20 miliardi gli Npl ( non performing loans, ovvero i crediti deteriorati, ndr), eredità della lunga crisi finanziaria, in questa fase bisogna prevenire e cercare di evitare le crisi aziendali.

È ottimista sulle proroghe?

L’Italia è stato il primo grande Paese europeo a subire gli effetti del Covid, i nostri problemi hanno fatto un po’ da battistrada. Discutere nell’Ue a 27 è sempre ostico, lo abbiamo visto anche sulle nuove regole di default. Confido che le difficoltà ora parallele di stati come Francia e Germania portino a valutare più positivamente le istanze italiane.

Un mese fa la Corte di Giustizia Ue ha condannato lo stop della Commissione al salvataggio “nazionale” di Banca Tercas. Una sentenza che ha aperto nuove prospettive?

È stata una grande soddisfazione. Nel rendiconto del Fondo nazionale di risoluzione si attesta che le misure adottate, su indicazione Ue, verso le 4 banche locali finite in crisi nel 2015 sono costate alle banche concorrenti 3,7 miliardi, quindi ben più di quanto previsto a suo tempo dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), con progetti alcuni dei quali erano già stati approvati da Bankitalia. Prima il Tribunale Europeo nel marzo 2019 e poi la Corte di Giustizia della Ue con una doppia sentenza conforme hanno stabilito che non eravamo noi che sbagliavamo: ci fu un grave errore di diritto del precedente “governo” europeo di Juncker. Almeno il risarcimento morale c’è stato.

Oggi il Fitd è impegnato nella Popolare Bari e in Carige. Con quali prospettive?

Dico solo che l’Italia ha fatto sempre fronte alle proprie crisi bancarie con risorse proprie. La sentenza della Corte Ue ha conferito nuova fiducia verso gli istituti che hanno superato la lunga crisi avviata nel 2008. E c’è un altro aspetto.

Quale?

Il verdetto rafforza la credibilità istituzionale dell’Ue dove – ricordo – non c’è una Costituzione. Si è dimostrato che la Commissione può anche soccombere in giudizio, l’Unione non è insomma un luogo dove comanda il più forte. Anche se la strada dell’integrazione è ancora lunga.

L’Unione bancaria infatti è lungi dall’essere piena, mentre va avanti il Fondo di risoluzione unico dell’area euro per eventuali crisi bancarie.

Speriamo che non ci sia necessità di usarlo. Intanto è una voce di costo rilevante e incomprimibile: nel 2020 le banche italiane vi hanno contribuito per altri 981 milioni, entro fine 2023 arriveremo a quota 5,7 miliardi.

Quale giudizio dà del cashback, il rimborso di parte delle spese in carte, che alcuni partiti vorrebbero bloccare?

È un’iniziativa in atto da molti anni negli Usa, da parte di alcune società emittenti di carte di pagamento. La spinta data in questa fase dalle istituzioni della Repubblica è di educazione civile e si accompagna a un ulteriore calo dei costi delle commissioni, generato dalla maggior competizione. Un processo che avviene senza alcun corso forzoso né costrizioni.

Pandemia a parte, come vede il quadro economico?

Il cambio più importante è stato quello nell’amministrazione Usa. In nemmeno 3 mesi dall’avvento di Biden, vediamo un ritorno cospicuo della solidarietà euro-atlantica e della collaborazione rispetto all’era Trump, che aveva danneggiato il nostro export. Anche i rapporti interni all’Ue si sono rinsaldati, a partire dall’intesa del luglio 2020 sul Piano di ripresa e resilienza. Sono tutti elementi prospettici che alimentano speranze, anche più della situazione in atto, che pur vede uno spread sceso ormai sotto quota 100 punti e indicatori borsistici che non sono più quelli infimi di un anno fa.

Con il nuovo governo c’è un cambio di passo?

Draghi viene da esperienze professionali che sono le più elevate in Europa, non solo in Italia. La mia speranza è che si crei un clima collaborativo quale quello successivo alla seconda guerra mondiale e non quello conflittuale che seguì la prima guerra. La stella polare sia la stessa voglia di lavorare di allora, per ricreare un nuovo miracolo economico e un ritorno dell’Italia nei quadri decisivi delle relazioni internazionali.