Attualità

LA GRANDE TRATTATIVA. Pressing di Napolitano: no pasticci, stabilità

Marco Iasevoli mercoledì 27 febbraio 2013
​Ha due esigenze Giorgio Napolitano, messaggero di «serenità» in Germania, nella casa del rigore di Angela Merkel. Primo: rassicurare il maggior partner europeo sull’esito positivo della «prova un po’ complicata» che l’Italia sta affrontando. Secondo: non dire nulla che indispettisca i partiti.Eppure, una linea d’azione il Colle ce l’ha: «Cercare di avviare su un sentiero costruttivo la formazione del nuovo governo». È l’unica prospettiva che il Quirinale accetta: dare un esecutivo al Paese. Stabile e operativo. È una convinzione, ma anche un obbligo. Napolitano, a fine mandato, non può sciogliere le neonate Camere. Se i partiti volessero tornare al voto, dovrebbero aspettare l’insediamento del nuovo capo dello Stato e dunque far scivolare il ritorno alle urne almeno a giugno. In pratica, l’Italia aggiungerebbe altri cento giorni di semivuoto politico ai 60 appena passati. Un’eternità. Molto peggio della Grecia.Certo, il Quirinale non può forzare niente e nessuno. «Quando il popolo sovrano si esprime il capo dello Stato deve solo riflettere e lasciar riflettere i partiti», dice Napolitano nel freddo rigido di Monaco di Baviera. Il Colle deve solo, aggiunge, «attendere con eguale rispetto per tutti che le forze politiche facciano le loro considerazioni e me le riferiscano». Le prese di posizione ufficiali, insomma, arriveranno solo quando saranno concluse le consultazioni.Ma è la storia di questo presidente a suggerire che nei dialoghi formali con i partiti spenderà eccome le "raccomandazioni" ricevute prima da Obama e ora da Merkel. E metterà la governabilità dinanzi a ogni altro principio. E qui arriva il punto caldo. Perché gli scenari non sono due, ma tre. Il governissimo, il ritorno al voto e un esecutivo Pd-Sel senza maggioranza certa al Senato ma che si appoggia alle benevolenza di Grillo. Non si esprime, il Colle. Ma diversi giuristi molto ascoltati al Quirinale non lesinano critiche a quest’ultima formula. «Un pasticcio», una «soluzione che non ha futuro e credibilità». Non è il parere ufficiale di Napolitano, certo. Ma è un umore diffuso che tiene conto delle perplessità delle cancellerie di mezzo mondo.La novità è che il Pd, allo stato, non è disposto a farsi imporre nulla. «Abbiamo già dato», sussurrano i leader del partito quasi in coro. Il riferimento è al novembre 2011. «Dovevamo andare al voto, non accettare Monti...», è il loro rammarico. Quel precedente porta oggi a chiudere le porte ad ogni nuova collaborazione con Berlusconi.Il Cavaliere invece c’è, è disponibile. Una posizione che gli fa comodo perché scarica sul Pd ogni responsabilità. «Un accordo con loro? Ora dobbiamo prendere del tempo per riflettere...», dice in mattinata. Poi un’apertura più netta: «Non credo che sia utile in questa situazione tornare al voto. Tutti devono riflettere con grande responsabilità per il bene dell’Italia, tutti devono acconciarsi a fare qualche sacrificio. Il Paese non può non essere governato».Un approccio chiaro. Accompagnato anche da uno schema di massima sui termini dell’accordo. Il Cavaliere vorrebbe per sé, o per il presidente uscente Renato Schifani, il vertice del Senato. E dire la sua sul Colle. In cambio assicurerebbe un impegno di medio periodo, anche per un’intera legislatura, per traghettare il Paese verso la Terza Repubblica, rinnovare partiti e leader e riformare le istituzioni. Ma prima di girare le carte, il Cav ha il lusso di poter attendere la prima mossa di Bersani.La sensazione, nel Pdl, è che il Pd con l’approccio a Grillo stia facendo pretattica. E che alla fine scenderà a patti. «Quello con Grillo è l’abbraccio mortale», ragiona il Cavaliere. La durata prevista di un governo di minoranza non supera l’anno, e la deadline sarebbe già fissata, al massimo, alle comunali ed europee del 2014.E a dire il vero, anche nella pancia del Pd il tentativo con M5S viene percepito quasi come un tentativo da espletare per non mostrare subito il fianco a chi parlerebbe di "inciucio". Il punto è se, in un patto a due (o a tre con Monti), il premier resterebbe Bersani. Oppure se il segretario Pd lascerà l’incombenza ad un altro, un esponente democratico ben visto dall’altra parte o un tecnico.