Attualità

Intervista. «Posti di lavoro per battere i clan»

Diego Motta venerdì 11 marzo 2016
È un’opera di persuasione difficile e complicata, quella che da molto tempo il Gruppo cooperativo Goel porta avanti nelle terre della ’ndrangheta. «Se vogliamo produrre il cambiamento partendo da qui, dalla Calabria e in particolare dalla Locride, dobbiamo innanzitutto convincere chi ci sta vicino che un’alternativa di sviluppo c’è ed è concreta» spiega Vincenzo Linarello, presidente di un consorzio attivo nel settore agroalimentare, tessile e turistico, che dà lavoro a 100 persone e può contare tra l’altro su 10 cooperative sociali, 2 associazioni di volontariato, 28 aziende agricole e un fatturato di 5 milioni solo per le realtà non profit. «Combattiamo contro un sistema di morte che utilizza la precarietà per controllare il consenso delle persone » spiega Linarello. Come siete riusciti a invertire i termini della questione, in un contesto che per il resto d’Italia è sinonimo di illegalità diffusa e criminalità? Abbiamo pensato che i cosiddetti 'sconfitti' della storia potessero diventare una forza positiva per queste comunità, scommettendo sulla logica del mutualismo e della cooperazione. Sono nate così le comunità di accoglienza per i minori e per i migranti, le attività di cura per le persone svantaggiate, i progetti per riconoscere dignità agli agricoltori vessati dalle cosche, l’idea di rilanciare la tradizione della tessitura a mano per farne un marchio di alta qualità. Attraverso alcune scelte etiche, si è creata occupazione e si sono aperti dei mercati che sembravano irraggiungibili. E la lezione non vale solo per il Mezzogiorno. A questo proposito, che effetto fa tutti i giorni dover fare i conti con la sequela di sprechi, tangenti e corruzione che penalizza il sistema Italia? Ci sono in giro troppi professionisti, troppi esperti nella gestione e nell’utilizzo di risorse pubbliche. È gente staccata dal territorio, che scrive bandi senza sapere nulla dello sviluppo locale. La radice malata del sistema si concretizza nel premio alle appartenenze, non al merito. Tutto ciò è diventato cultura ed è quello che ci deve preoccupare di più. Ma per produrre un cambiamento serve altro, per fortuna. Cosa? Se la ’ndrangheta mira a provocare danni materiali e depressione sociale nel nostro territorio, le nostre iniziative devono andare in direzione opposta. Dobbiamo cercare di suscitare speranza, ben sapendo qual è la disparità delle forze in campo: se i clan si presentano come coloro che fanno muovere l’economia,a noi tocca spiegare perché in realtà essi la stanno bloccando, soffocando tutto. Non avvertite il rischio che, crescendo dal punto di vista dimensionale, possiate in qualche modo venir meno alla missione cooperativa che chiede radicamento e partecipazione alla vita delle comunità? Stiamo lavorando avendo ben presente questo rischio, che come un virus si è già incuneato nel corpo del movimento cooperativo: lo testimoniano gli scandali più recenti. Cercheremo di essere vigili affinché non vada smarrito mai lo spirito delle origini che ci ha portato sin qui. In che modo? Ci sono tre antidoti: la trasparenza dei comportamenti come strumento di difesa, la partecipazione democratica come modalità di coinvolgimento dei soci e dei lavoratori, la formazione come momento-chiave per crescere. In futuro, vorremmo rivolgerci innanzitutto alla Calabria silenziosa e maggioritaria che non ha ancora i mezzi per reagire al malaffare e al clientelismo diffuso. Solo insieme possiamo vincere questo sistema di morte.