Attualità

Le pagelle. L’anno di Giorgia Meloni (ma non solo). Mosse ed errori dei leader

martedì 27 dicembre 2022

Giorgia Meloni, prima premier d'Italia

Giorgia Meloni

La «prima donna» corregge la rotta

«È una cosa un po’ impattante, emotivamente», ammetteva a ottobre Giorgia Meloni, ricevendo dalle mani di Mario Draghi la campanella di Palazzo Chigi, che annunciava il passaggio di consegne fra il premier uscente e quello, anzi quella, entrante. La prima donna presidente del Consiglio nella storia repubblicana, in un 2022 costellato da tante altre “prime volte”: la sua creatura politica, Fdi, diventata nelle urne il primo partito; l’incarico del capo dello Stato, accettato senza riserve; il primo Cdm e i vertici internazionali da protagonista, ma senza dimenticare l’essere mamma, con Ginevra al seguito... «Si vivesse solo di inizi, di eccitazioni da prima volta», recita una canzone di Niccolò Fabi, «ma tra la partenza e il traguardo, in mezzo c’è tutto il resto» che è «silenziosamente costruire». E per costruire qualcosa, la premier ha iniziato ad accantonare posture elettorali in favore del pragmatismo, nel dialogo con gli avversari (vedi Calenda) come sulla manovra di bilancio e nei rapporti con l’Ue, lasciando il vicepremier Salvini a fare il “pierino”. Le sfide sono tante, dal Pnrr alle politiche migratorie. E il bonus-debutto è finito, ora contano i risultati. (Vincenzo R. Spagnolo)


Matteo Salvini

La «decrescita felice» della Lega

Con la capacità di riposizionarsi Matteo Salvini ha trasformato nel 2022 il maggiore difetto che gli viene attribuito (i repentini cambi di opinione) in potenzialità positiva. Cosicché nonostante l’oggettiva disfatta costituita dalla riduzione in appena tre anni a circa un quarto dei consensi, per la Lega, rispetto al picco massimo delle Europee 2019, l’attuale ministro delle Infrastrutture ha abbandonato tempestivamente il carro del governo Draghi ed è salito su quello di Giorgia Meloni, accettando e contrattando un ruolo da comprimario. Poi, una volta vinte le elezioni come coalizione, ha evitato di fare asse con Silvio Berlusconi nel mettersi di traverso al varo del governo Meloni e ha scelto anche di non fare le barricate sul Viminale, accettando il piano B del suo ex capo di gabinetto, il prefetto Matteo Piantedosi, indicato al suo posto. In cambio ha ottenuto un peso nei dicasteri superiore al consenso di partito ed è riuscito a dettare la linea su molti temi, dall’immigrazione all’autonomia. Più complicata la partita interna, con la Lega che “evapora” al Centrosud e registra al Nord l’offensiva del Comitato bossiano. (Angelo Picariello)


Silvio Berlusconi

Le «bizze» prima di arrendersi ai fatti

Annusata l’imminente ascesa di Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi ha vissuto il 2022 politico alla perenne ricerca di un posto al sole. Prima l’autocandidatura al Quirinale, che ha causato un lungo stallo e anche momenti di imbarazzo nella sua parte politica. Poi il tentativo, in campagna elettorale, di stringere un asse con Matteo Salvini di modo da limitare le ambizioni della leader di Fdi. Infine, dopo il voto, l’ultimo pressing per provare ad incassare caselle a forte significato politico, come la Giustizia. Ma alla lunga i fatti - elettorali - hanno preso il sopravvento e hanno costretto il Cav. ad arrendersi all’evidenza. L’ex premier ha dunque dovuto lasciare, dopo quasi 30 anni, la conduzione politica del centrodestra, nel frattempo divenuto destracentro. E il timone, ironicamente, è passato nelle mani della erede diretta di quei post-missini che proprio lui, il Cav., aveva portato nelle cabine di comando di Palazzo Chigi e dei ministeri. Al netto di una parabola in discesa del leader, tuttavia, Forza Italia è riuscita di nuovo a smentire le previsioni di “crollo totale” e a tenere botta anche alla scissione di pezzi da 90 verso il Terzo polo. (Marco Iasevoli)


Enrico Letta

L'annus horribilis del segretario dem

Missione fallita per Enrico Letta. Se la sua segreteria nel 2021 riesce a rivitalizzare i dem, nel 2022 la sua leadership segna il passo. Per Letta questo che si chiude è l’annus horribilis. Il suo Pd esce secondo partito dalle elezioni del 25 settembre, ma con un deludente 19%. Fedele a Draghi fino ala fine, la sua campagna per il «campo largo» che voleva unire da Azione a Si, passando per M5s, fallisce miseramente e i suoi ex alleati Calenda e Conte iniziano un tentativo di “cannibalizzazione” dei consensi. I sondaggi danno il partito in caduta libera, anche al 15%, e segnano il sorpasso dei 5s. Dopo la sconfitta, ha dato le dimissioni, annunciando di non volersi ricandidare, ma di voler restare fino al Congresso. Una decisione condivisa dai capi corrente, pentiti col senno di poi di fronte alle recenti rilevazioni, che dimostrano come la scelta di una mancanza di discontinuità stia logorando ulteriormente l’immagine del Pd. Eppure Letta si è mosso con spirito di sacrificio, per evitare scissioni ancora non scongiurate. Ma la battaglia tra le correnti è ripresa e i candidati alla segreteria gli tirano la giacca per anticipare o posticipare le assise. (Roberta d’Angelo)


Matteo Renzi e Carlo Calenda

Il duo-sorpresa alla prova dell'unità

La “strana coppia” Renzi-Calenda - meno strana dell’apparenza per quanti comunque prevedevano un loro destino comune - è l’altro fenomeno che ha segnato l’anno. Superate le fasi delle lodi (agli inizi del suo governo nel 2014/15) e dei successivi attacchi, Renzi ha avuto la capacità - che pochi gli riconoscevano - di eclissarsi per dar vita a una formazione con il battagliero e polemista ex ministro. Fallito alle elezioni l’obiettivo della doppia cifra, hanno ottenuto un decoroso 7,8%. Si è avviato l’iter per una federazione, ora il partito unitario ha un anno per attrezzarsi in vista del vero obiettivo strategico delle Europee 2024. L’amalgama fra i due tiene. Li accomuna il filo rosso delle critiche salaci al Pd, ma anche agli opposti populismi della destra e di «Condono Conte». La capacità di produrre temi c’è, come quella di terremotare gli assetti (lo prova la vicenda Moratti in Lombardia). Resta un’incognita se ci sia un terreno fertile per una proposta liberaldemocratica. E, sotto sotto, si attende un loro zampino per creare problemi al governo. (Eugenio Fatigante)


Giuseppe Conte

L'ex premier, scopertosi capo, rimonta

Tra i “colleghi” leader dell’attuale opposizione, Giuseppe Conte è probabilmente quello che ne esce meglio. Dopo la scissione di Luigi Di Maio e la crisi del governo Draghi, in molti avevano previsto una debacle dei pentastellati che invece, grazie a una campagna elettorale incentrata sul ritorno all’approccio “barricadero” di un tempo, hanno raccolto molti più consensi di quelli attesi. Un successo guidato dell’ex “avvocato del popolo” che dopo l’esperienza a Palazzo Chigi ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano come capo politico. La scelta di puntare sulla difesa delle misure bandiera, come il Reddito di cittadinanza e il Superbonus, ha premiato e ora i grillini possono contare su un’immagine percepita di partito a difesa delle fasce più deboli e su uno zoccolo duro di elettori che hanno beneficiato delle loro misure. C’è poi un altro aspetto, che i detrattori vedono come un problema, ma che per ora continua a pagare: Conte è riuscito a dare al M5s la sua immagine senza irritare la base ed evitando di venir offuscato da Beppe Grillo, rimasto in ombra e sempre meno presente nella vita della sua creatura politica. (Matteo Marcelli)