Attualità

Scienza e informazione. È più buono o più cattivo? L'inutile diatriba sul virus

Paolo Viana sabato 16 maggio 2020

Qualche giorno fa, la Società italiana di malattie infettive e tropicali è scesa in campo per negare che il Covid-19 stia diventando “buono”. Lo ha detto per primo Massimo Andreoni, che è il direttore scientifico. L’ha confermato subito dopo Massimo Galli, primario del Sacco, preoccupatissimo per l’attenuazione del lockdown e del distanziamento fisico. Questa levata di scudi contro le mutazioni fa pensare che esista una divaricazione tra scienziati sulle strategie da attuare per il contenimento del virus ma soprattutto che è latente, in quella zona grigia che collega scienza e politica, una preoccupazione sull’effetto sociale dell’informazione scientifica: così come parlare di mutazioni “cattive” terrorizza, discettare di mutazioni “buone” rischierebbe di vanificare gli sforzi fatti per abbassare la curva dei contagi.

Tale posizione ha un fondamento poco generoso, dal momento che sottintende l’incapacità della popolazione di cogliere la differenza tra un dato scientifico (A sta diventando B mentre io aggiungo C) e le sue conseguenze epidemiologiche (se tolgo C – cioè il lockdown – non è detto che A continui a diventare B), tenuto conto che la modellistica utilizzata per analizzare le mutazioni considera sempre diverse variabili, la più importante delle quali è proprio il lockdown.

Ciò detto, il virus continua a mutare indipendentemente dalla politica e il suo genoma ci parla. Per comprendere quel che dice, non bisogna confondere le sequenze da cui emergono le mutazioni con le verifiche di laboratorio e il dato clinico, che, come ha ricordato Robert Gallo, devono andare a braccetto. Separarli e contrapporli significa perdere quel poco tempo che abbiamo. Anche su questo punto il virologo americano è stato chiaro, nell’invocare l’uso del vaccino della polio. Ci serve qualche anno, ha detto. Ci sta che si sbagli, persino lui, e che gli studi in corso dimostrino che a metà luglio tutto sarà finito. È l’ipotesi più ottimistica. Così come ci sta l’esatto opposto. Ad esempio che il coronavirus divenga più contagioso, come ha scoperto a Los Alamos Betty Korber. A proposito di ceppi “cattivi”, la ricercatrice statunitense ha rilevato non una ma «tredici mutazioni nella proteina Spike che si stanno accumulando».

Una di esse, «è di urgente preoccupazione – scrive la scienziata – perché ha iniziato a diffondersi in Europa all’inizio di febbraio e quando viene introdotta in nuove regioni diventa rapidamente la forma dominante». Mutazioni pessime vengono censite senza tanti svolazzi – notate che la Korber parla di «dominanza » ma poiché non ha dati sufficienti non si lascia andare a considerazioni sulla maggiore o minore letalità del virus – che spiegano non solo perché negli Usa il Covid-19 non accenni ad arrestarsi, ma anche perché dagli Usa potrebbe tornare in Europa più forte di prima. Infatti, il cambiamento osservato dimostrerebbe che il virus impara ad aggirare anticorpi e vaccini. Fortunatamente, le mutazioni non avvengono secondo un piano prestabilito, ma sono frutto della casualità e dell’errore. Così, in Arizona hanno scoperto anche un ceppo “buono”, che è mutato in modo simile alla Sars, quando quest’ultima sparì.

Naturalmente, una volta scoperte le mutazioni, si passa ai test di laboratorio e alla sperimentazione su cellule e animali. Insomma, come dice Ewan Harrison, responsabile del progetto scientifico del consorzio britannico Covid-19 Genomics, «i virus mutano naturalmente come parte del loro ciclo di vita» ma non dobbiamo temere il Covid-19 per questo. Dobbiamo temere invece l’incapacità di elaborare strategie complesse di risposta a queste mutazioni, in quanto tale incapacità potrebbe danneggiare seriamente un altro organismo, le cui cellule mutano ogni volta che si riproduce, da migliaia di anni. L’uomo.