Attualità

Intervista. Il sociologo: «Periferie abbandonate producono egoismi»

LUCA LIVERANI martedì 31 maggio 2016
«Ua vicenda inaudita, che mi indigna. Ma purtroppo non mi meraviglia». Fabrizio Battistelli, docente di Sociologia alla Sapienza, le periferie romane le ha studiate a lungo. E dunque non si sorprende per il disinteresse complice degli automobilisti che, alla Magliana, hanno ignorato la disperata richiesta di aiuto di Sara Pietrantonio, uccisa col fuoco dall’ex. Professor Battistelli, perché non si meraviglia? Non posso non pensare all’imbarbarimento delle nostre città. Una serie di fattori, il primo dei quali l’estensione stessa delle metropoli come Roma, sta facendo perdere la dimensione della convivenza tra le persone. Un’involuzione che si è già verificata nelle città non europee, ma ormai è un modello globale: la città come luogo di estraneità. Luoghi in cui viene meno la reciprocità, che ancora nei centri medi e piccoli fa ritenere a ciascuno di noi di poter avere già incontrato l’altro o di poterlo incontrare. Sto parlando della base dello scambio della socialità: condividere assieme una situazione comune. Intende dire: succede a questa ragazza, ma potrebbe succedere anche a me, a mia moglie, a mia figlia? Esatto. Una reazione primordiale dell’individuo, che è oggi spesso è totalmente soffocata, una luce che è in ognuno di noi, ma che ormai tende a spegnersi per colpa dell’isolamento, dell’alienazione e della paura. Era evidente che di trattava di un’assoluta emergenza: una persona fragile che chiede aiuto alle 3 di notte. Le reazioni di chi assiste a un episodio del genere possono essere diverse. C’è quella altruistica: è di chi decide di intervenire, anche mettendo in conto una percentuale di pericolo, per un beneficio grande per l’altro. Oppure c’è la reazione normale di chi prende il telefono e fa il 113. Qui non si è verificata nemmeno quest’ultima. Per una mancanza tipica di questo tempo - e di questo spazio, l’Italia - di cultura delle istituzioni, preposte alla sicurezza di tutti e di ciascuno. Consapevolezza che, devo dire, esiste più in altre società, quelle che nutrono più fiducia nelle istituzioni, che hanno più senso civico. Siamo tutti costantemente connessi, sempre col cellulare in mano, ma nessuno ha pensato di chiamare la Polizia. Gli automobilisti, individuati, hanno detto che non avevano capito. Non c’era possibilità di fraintendere. Non si trattava di una rissa tra extracomunitari o di un regolamento di conti. Nemmeno lo sforzo di fare una segnalazione anonima alle forze dell’ordine... Come si è potuto arrivare a una tale chiusura a riccio? Le città storicamente sono nate perché le persone hanno deciso di vivere assieme, proprio per difendersi dai pericoli esterni. Oggi però il deserto, che una volta veniva chiuso fuori dalle mura, si è trasferito dentro. È un processo di tutte le grandi città. Colpa di uno scarso capitale sociale, di una insufficiente fiducia reciproca che caratterizza un Paese come l’Italia. Anche la moltiplicazione delle differenze non ha aiutato l’omogeneità di condominio e di quartiere che esisteva fino a 30 anni. Gestire le differenze è un’operazione complessa: scontiamo l’assenza di politiche di integrazione? È proprio così. A tutto questo dobbiamo aggiungere amministrazioni che negli anni sono state  sempre più lontane, sempre più inefficienti e ciniche... La Chiesa, presente fin dall’inizio nelle borgate e nei quartieri poveri, già nel 1974 aveva fatto la sua diagnosi sui «mali di Roma». Precoce ma lucida. Troppi sindaci invece hanno ignorato il tema della coesione sociale. E questa è una responsabilità che interpella chi si candida a governare Roma Capitale. Fatiche di Ercole. Le responsabilità dei comportamenti però sono individuali: non si può criminalizzare un quartiere... Questo è evidente, perché assieme agli automobilisti 'indifferenti' ci sono anche le persone che si fermano e pensano all’altro. Però non sono quelle che più spesso girano alle 3 di notte...