Attualità

Dopo Parigi. Paura e psicosi nelle città: «Ripartiamo dalle periferie»

Diego Motta giovedì 19 novembre 2015
Alla fine si torna sempre lì, nei territori perduti della République. Nelle periferie, nelle banlieue, letteralmente i luoghi della «messa al bando». È laddove tutto sembra perduto e dimenticato, dove si moltiplicano anche architettonicamente gli spazi di esclusione e di marginalità, che la storia produce cortocircuiti pazzeschi. Non imprevisti e imprevedibili, però. La creazione stessa di 'fortini' inaccessibili alle forze dell’ordine ha portato con sè sin dall’origine i rischi tragici per la convivenza civile di cui stiamo parlando in questi giorni. Molenbeek, Saint Denis, Courcouronne sono dunque i nomi della nuova geografia della paura, che sembra aver accerchiato le metropoli, da Parigi a Bruxelles. «Si stanno ridisegnando radicalmente i confini geopolitici ed economici della vecchia Europa – osserva il sociologo Aldo Bonomi – e in questo cambio d’epoca la rottura degli schemi sociali del passato è sotto gli occhi di tutti. Dietro all’inquietudine covavano piani eversivi, che puntavano e puntano a dividerci, a metterci gli uni contro gli altri». L’esplosione della violenza. L’era del conflitto permanente, della «guerra civile molecolare» dentro le grandi aree metropolitane è frutto di una violenza accumulata per decenni e poi esplosa, senza che nessuno, neppure lo Stato, potesse mettersi in mezzo per prevenirla o quanto meno disinnescarla per tempo. Ma come è stato possibile tutto questo? Perché davanti alla nascita e alla crescita dei 'ghetti' che hanno ospitato e nutrito gli ideologi del terrore, nessuno ha mosso un dito? «Le periferie non sono un fatto naturale, nascono come alternativa al centro città e poi diventano roccaforti della classe operaia – sottolinea l’antropologo e urbanista Franco La Cecla –. Immaginate come tutto questo possa aver preso forma in una metropoli come Parigi, una città storicamente 'centrata' su se stessa. Più ti allontani dal cuore della capitale francese, più cresce la marginalità sociale. Ecco perché nei territori teatro delle rivolte e nascondiglio dei criminali, la gente che ci abita sta male. Perché vive la propria quotidianità come uno stigma, un marchio d’infamia che accentua i sentimenti di ribellione». L’odio che ha scatenato la paura si ammanta di slogan religiosi, ma nulla ha a che fare con le grandi fedi. «L’Is è innanzitutto un’ideologia che in modo perverso ha sedotto alcuni giovani » spiega La Cecla. L’islam, semmai, ha il dovere di mobilitarsi dal di dentro (come in alcuni casi sta avvenendo) per impedire le facili equazioni. «Quando l’Europa confonde etnie e religioni, di solito si mette nei guai» continua l’antropologo, secondo cui «è come se in questi anni fosse mancata un’elaborazione teorica da parte degli intellettuali musulmani, che consentisse di percepire in anticipo la portata di questa sfida per vincerla subito, sul piano delle idee e della civiltà». I territori da ri-civilizzare. E se è vero, come dice Bonomi, che «il problema non si può affrontare guardando solo le banlieue, perché i movimenti di faglia che hanno originato questo terremoto vanno cercati altrove, in Siria e nel Mediterraneo», di certo non sfugge a chi studia l’opinione pubblica il rischio di 'psicosi collettiva'. Ogni minimo sospetto provoca allarme: solo ieri in Italia è scattato più volte il protocollo di difesa, vicino a San Pietro per uno zaino lasciato incustodito e a Bologna, dove un bagaglio abbandonato vicino ad un binario della stazione ha fatto scattare l’evacuazione dell’atrio. Massima allerta per valigie sospette anche all’aeroporto di Copenaghen e le scene si ripetono un po’ ovunque, tra imbarazzi e isterismi. Nel tempo dell’insicurezza globale, l’Italia potrebbe almeno consolarsi con le parole del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che sui quartieri ghetto è intervenuto due giorni fa dicendo che almeno noi non abbiamo sbagliato «le politiche dei decenni passati e non abbiamo le periferie francesi, con immigrati che spesso non sono integrati». «È vero che abbiamo meno problemi e questo adesso vale un po’ più per Milano e un po’ meno per Roma – reagisce Bonomi –. Eppure, bisogna fare attenzione e maneggiare con cura le parole. Certi fenomeni sociali non vanno sottovalutati. Al posto delle banlieue, noi abbiamo vere e proprie enclave: condomini o pezzi di condomini in mano ai clan, piccole aree che nessuno è mai riuscito a bonificare. Anzi, in cui nessuno è mai entrato». È evidente come, a questi livelli, sia del tutto inutile affrontare l’emergenza legandola a discorsi di politiche urbanistiche o di riqualificazione sociale. «Quando esplodono bombe e si combatte per strada, facendo di Parigi una sorta di Beirut, la tentazione è ancora quella di dividerci, polarizzandoci. Faremmo il loro gioco, quello dei terroristi: invece nelle metropoli sotto assedio, dovremmo sforzarci di riscoprire tracce di comunità » continua il sociologo milanese. «Dovremmo riuscire a ribaltare la prospettiva, partendo ad esempio dagli immigrati. In città come Barcellona, chi è arrivato da fuori si è insediato in centro, sostituendosi di fatto ai vecchi ceti popolari e salvando buona parte delle periferie» spiega La Cecla. «Ora la vera sfida è quella di creare cittadinaza, all’interno di un patto che sancisca diritti e doveri per cittadini autoctoni e nuovi arrivati».