Attualità

Caporalato. Lavoratori schiavi. Pane, acqua... e dire «sì padrone»

Lilli Genco venerdì 15 giugno 2018

Tante ore di lavoro e poco denaro, immigrati sfruttati nei campi

«Trenta euro per nove ore e mangiarìa »: poco denaro, tante ore di lavoro e un panino. Nei campi, per la raccolta delle olive e per la vendemmia o nelle serre dove vengono coltivati ortaggi e primizie. È nel triangolo tra Marsala, Mazara del Vallo e Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, che la polizia ha fatto luce sullo sfruttamento di lavoratori africani, reclutati in vario modo, anche direttamente nei centri di accoglienza, ed utilizzati come manodopera per coltivare la terra o raccoglierne i frutti.

Reclutamento senza scrupoli L’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Marsala, ha portato ai domiciliari due imprenditori agricoli, Angelo e Sebastiano Valenti, padre e figlio, di 62 e 34 anni accusati di essere i “caporali” che non solo avrebbero sfruttato gli immigrati nella loro azienda ma avrebbero fatto da mediatori, reclutando la manodopera per altre aziende, contrattando le condizioni senza farsi scrupolo di far valere il proprio ruolo di «padroni», anzi facendosi chiamare proprio così dai propri sottoposti.

Tra le altre misure, è stato disposto anche il sequestro preventivo di due vigneti e di un vasto oliveto di proprietà degli arrestati, così come prevede la normativa. L’indagine su cui lavoravano da qualche anno gli agenti della squadra mobile di Trapani lo scorso anno si è incrociata con un strano episodio. Il gesto inconsulto di un giovane di origini sudanesi che aveva creato il panico su un pullman di linea, che da Marsala viaggiava verso Palermo cercando di mandarlo fuori strada (gesto sventato per il pronto intervento di due militari che viaggiavano in borghese). In un primo momento era scattata l’allerta terrorismo. A smentire l’ipotesi di un tentativo di attentato erano stati i magistrati del pool della Dda di Palermo che si occupa di terrorismo che si erano affrettati a dichiarare che probabilmente di trattava solo del gesto isolato di un ragazzo con «problemi personali».

Il casolare della disperazione Proprio analizzando l’agendina che il ragazzo aveva con sè, su cui erano annotati una serie di cifre e utenze telefoniche, è iniziato il lavoro d’indagine della polizia che ha svelato ben altro scenario. Risalendo agli intestatari dei numeri e ai loro movimenti, gli agenti hanno ricostruito la rete dello sfruttamento: organizzatori e vittime, fino a scoprire un casolare nelle campagne del marsalese dove una decina di immigrati, tutti originari dei paesi dell’africa subsahariana, vivevano in condizioni igieniche raccapriccianti tra materassi sudici, vecchie cucine a gas, tende e capanne per gli spazi personali senza acqua, gas, elettricità, senza porte nè finestre.

L’unico angolo rivestito di tappeti, anch’essi sudici, era quello circondato di tufi per la preghiera. Era il casolare il quartier generale dello sfruttamento ma i due imprenditori avevano ampliato la loro rete di 'raccolta del personale' anche oltre, reclutando in auto anche in altre zone i lavoratori. Ad incastrarli le intercettazioni ambientali «Panino no buono, non l’abbiamo mangiato oggi, troppo duro» si doleva uno degli immigrati. «Allora io non venire più a Campobello a prendere persone, basta» rispondeva Valenti che l’immigrato chiama «padrone». «Un fenomeno per nulla circoscritto» afferma il capo della squadra mobile Fabrizio Mustaro. Il recluta- mento della manodopera avveniva anche nei Cas, i centri di accoglienza della provincia di Marsala «senza che gli operatori ci abbiano mai segnalato nulla» ha voluto sottolineare. Proprio sul tema dello sfruttamento dei migranti, le organizzazioni sindacali e la Prefettura hanno istituto un tavolo tecnico per coordinare sistemi di accoglienza durante le campagne di raccolta e le assunzioni, con il collocamento pubblico, in agricoltura.