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INTERVISTA. Claudio Mencacci: «Chiudere gli Opg? Non siamo pronti»

Giovanni Ruggiero venerdì 14 giugno 2013
Dovevano già chiudere. Chiuderanno. Parliamo degli ospedali psichiatrici giudiziari. Inferni e luoghi di pena senza fine. La data di chiusura (irreale) del 31 marzo scorso è passata liscia. Il legislatore, allora, si è affannato e ne ha stabilita un’altra: il 1° aprile del 2014. Sono scettici però i medici della Società Italiana di Psichiatria. Il loro presidente, Claudio Mencacci, è lapidario: «Le strutture alternative agli Opg da realizzarsi ai sensi della legge 9/2012 non potranno essere funzionanti prima del 2015». Quello che non convince gli psichiatri della Sip è che modalità inadeguate o non sufficientemente ponderate possano determinare gravi disagi per le famiglie e i pazienti. Né più né meno di quanto successe nei primi anni dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici. C’è ancora tempo per scongiurare pericoli? Ne parliamo con il professore Mencacci, presidente della Sip e direttore della divisione di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano.La Società da lei presieduta di certo ha antenne negli Opg. Quali sono le vostre proposte?Abbiamo fatto un’indagine nostra su quanto è stato fatto o deve essere ancora fatto per il superamento degli Opg. La Società è favorevole alla chiusura di questi ospedali, ma è necessario un periodo transitorio e c’è bisogno di gradualità. Così come è stato concepito, il superamento degli Opg è fortemente, e sottolineo fortemente, ideologico e non corrisponde assolutamente a quelli che sono i minimi criteri di fattibilità e soprattutto di vero superamento. Se non vengono fatte delle cose contemporaneamente si rischia di andare verso il commissariamento e non ne accetteremo nessuno di tipo ideologico. C’è tutto un movimento che guarda alla forma più che alla sostanza. Al vero superamento degli Opg si può arrivare solo realizzando determinati presupposti.Quali sono?Offrire delle cure per il reinserimento di queste persone internate e allo stesso tempo potenziare l’assistenza nelle carceri. Abbiamo creato questo assoluto binomio che è il vero nodo e riguarda migliaia di persone. In questa transizione come organizzarsi?Prima di tutto, organizzare il passaggio. C’è appena stata una presentazione di tutti i progetti delle regioni al Ministero. E già qualcuna non lo ha fatto. Le più avanzate sono Emilia Romagna e Lombardia che, in particolare, ha l’Opg di Castiglione delle Stiviere ed è orientata verso una strategia sanitaria e non di custodia come sono gli altri Opg. Significa che i soldi che lo Stato ha destinato, ma non ancora stanziato, alle Regioni resteranno inutilizzati fino all’approvazione dei progetti che non avverrà prima di settembre. Questi fondi potrebbero essere impiegati in personale da destinare alla tutela della salute negli istituti di pena in modo da non dover più inviare muovi soggetti in Opg.È infatti un controsenso: si devono chiudere, ma intanto vengono inviati nuovi pazienti negli Opg...In molte Regioni sono stati dimessi oltre il 40 per cento degli internati, ma contemporaneamente l’autorità giudiziaria ha continuato a inserire un cospicuo numero di persone negli Opg. È uno scollamento non da ridere.Per evitare lo scollamento, come lei dice, proponete di creare una prassi operativa con i magistrati. È esatto?Vogliamo dei percorsi sanitari di cura e non di custodia. I tempi della cura, che sono i tempi di permanenza nelle strutture riabilitative, devono essere affidati ai sanitari. Non vanno definiti dal magistrato, ma da esigenze cliniche, altrimenti finisce che creiamo dei mini Opg. Il tempo di permanenza nella fase del percorso riabilitativo residenziale deve dipendere dalle condizioni del soggetto e non dagli anni di misura di sicurezza che eventualmente verranno inflitti all’internato. I giudici decidano se deve rimanere in carcere e per quanto tempo, i sanitari decidano i tempi della cura e della riabilitazione.Resterebbe quindi la custodia in carcere sebbene soccorsa da un servizio di assistenza psichiatrica adeguato. Dobbiamo considerare che ci sono dei pazienti "indimissibili": sono persone di cui è stata riconosciuta la pericolosità sociale. Hanno già avuto in passato percorsi di reinserimento che sono falliti perché hanno reiterato il reato. È un numero piccolo, d’accordo, ma queste persone necessitano di custodia non di competenza sanitaria. E hanno bisogno di una custodia elevata. Va però detto che l’assistenza carceraria è veramente qualcosa di vergognoso. Va rinforzata. Questo è un tema centrale, perché la stragrande maggioranza dei detenuti ha problematiche di carattere psichico, ma non sono necessariamente psichiatrici. Chiediamo che in ogni Regione ci siano delle sezioni di osservazione psichiatrica. Dunque una distinzioni tra quelli che possono essere reinseriti e quelli che lei chiama "indimissibili".Va rivisto l’istituto della misura di sicurezza in modo da poter mantenere in detenzione le persone pericolose socialmente, potenziando appunto l’intervento delle Asl negli istituti di pena. Con l’accordo Stato/Regioni del 13 ottobre 2011 furono emanati indirizzi integrativi che prevedono l’attivazione di un’area di osservazione psichiatrica in almeno un istituto penitenziario di ogni Regione e il potenziamento della tutela della salute mentale all’interno di tutti i carceri. Con quali effetti?Questo consentirebbe di valutare tutti i nuovi pazienti autori di reati e potenzialmente malati di mente nel periodo di cognizione della pena. Successivamente, coloro che sono riconosciuti con vizio di mente e con una situazione di pericolosità che non necessita della detenzione possono essere assunti in carico all’interno di un percorso di cura. Noi dobbiamo chiederci cosa fare con gli autori di più di un omicidio.Chiusi gli Opg non c’è il rischio che boss dichiarati non imputabili ce li ritroviamo, diciamo così, nel territorio, magari grazie a perizie compiacenti?Sicuramente. Ecco perché vogliamo aumentare l’assistenza psichiatrica nelle carceri in modo da poter scremare quelli che veramente hanno problematiche gravi da tutti quelli che non le hanno, che sono delinquenti che precostituiscono una storia di pazzia. È risaputo che molti camorristi prima si fanno ricoverare in reparti Tso in ospedale e poi compiono il delitto. Dopo chiedono perizie psichiatriche che sono ovviamente orientate, e il gioco è fatto. I veri incapaci che compiono omicidi sono il 5 per cento: tutti gli altri sono in grado di intendere e di volere, quindi devono essere puniti.