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Latina. Operaie indiane sfruttate, molestate e minacciate per 4 euro all'ora

Antonio Maria Mira inviato a Terracina (Latina) mercoledì 22 maggio 2019

«Se non ritiri la denuncia non lavorerai più, né qui né altrove ». È il ricatto di alcuni imprenditori agricoli pontini e dei loro caporali, alle braccianti indiane sikh che si erano ribellate allo sfruttamento, alle minacce, alle molestie sessuali. E le donne hanno dovuto sottostare e hanno ritirato le denunce. Ma l’inchiesta della procura di Latina, affidata alla Polizia di Terracina, va avanti, si procede d’ufficio, anche perché quanto denunciato dalle lavoratrici è davvero gravissimo.

Ce lo hanno raccontato in un incontro riservato a Borgo Hermada, frazione di Terracina, assieme a Gurmukh Singh, presidente della Comunità indiana del Lazio, che le ha aiutate nella denuncia. Incontro difficile perché queste giovani hanno davvero paura. Incontro serale, appena rientrate in bicicletta dopo le lunghissime giornate di lavoro, chiuse per 14 ore in un capannone a selezionare, pulire, lavare e incassettare ravanelli, zucchine e carote. Per imprenditori e cooperative.

Pagate 4 euro l’ora, ma solo per 4-6 ore. Al massimo 18,25 euro al giorno. Bonus 80 euro pagato solo a metà. E contratti grigi. «Scrivono 15 giorni ma poi ne lavoriamo 30, anche sabato e domenica. Se non accettiamo perdiamo il lavoro». E che lavoro! «Stiamo sempre in piedi a fare cassette. Se iniziamo alle 6 facciamo una pausa di 10 minuti alle 9. Ma se cominciamo alle 7 niente pausa. Dalle 12 alle 13 ci fermiamo per mangiare, poi nulla finché non finisce il lavoro».

Ovviamente niente indennità di licenziamento, né di maternità. Anzi, denunciano, «quando una è incinta viene subito licenziata, anche perché non può sollevare cassette di 30-40 chili». Così qualcuna è stata obbligata ad abortire. Lavoro anche notturno perché prima parte il camion carico e prima arriva sul mercato e più è alto il prezzo che si spunta. Nessuna protezione, per tutta la stagione solo un paio di guanti, anche se lavorano per ore con l’acqua fredda. «Così ce li dobbiamo comprare noi». Una vera condizione di schiavitù.

«Ci dobbiamo presentare alle 6 ma se i prodotti da mettere in cassetta arrivano dopo due ore, per questo periodo non ci pagano. Quando gli ortaggi da incassettare sono finiti, in attesa degli altri dobbiamo pulire, ma non siamo pagate per questo». Così restano 12-14 ore ma pagate per 4-6. Ma altre volte niente. «Un padrone, una donna, mi ha fatto lavorare in prova per 7 giorni. Ma poi non mi ha pagato. 'Eri in prova', mi ha detto. Urlava, ci insultava, minacciava, mi colpiva sulle mani».

Gurmuk ci racconta un’altra storia. «Una donna deve prendere i soldi di novembre-dicembre dalla cooperativa dove lavorava. Ora ha cambiato ma quella di prima la ricatta: 'O torni da noi o non ti paghiamo'. Lo sanno che se le danno i soldi lei non tornerà, perché lì la sfruttano. Per questo non la pagano». Si tratta di una cooperativa già finita sotto inchiesta. Ricatti economici e ricatti sessuali. «Alcuni caporali e proprietari ci provano, soprattutto con le ragazze nuove, quelle che hanno più bisogno. E che alla fine accettano le avance. Ma neanche questo gli basta. Quando abbiamo chiesto mezzo euro in più dei 4 che ci dava, il padrone ci ha portate tutte al cancello e ha detto 'è aperto, se volete potete uscire, ma se volete restare non chiedete soldi'». Minacce e anche botte.

Mentre i caporali le insultavano. «Non siete buone neanche per 4 euro, dovreste ringraziare!». E le molestie sessuali, fino alla violenza vera e propria, le colpiscono anche sul posto di lavoro. Il lavaggio e l’incassettamento viene fatto in piedi, come una catena di montaggio, l’avance non è solo bisbigliata all’orecchio ma ci sono anche palpeggiamenti, strusciate, molestie. C’è violenza e prevaricazione. Ma solo alle indiane, alle marocchine e alle rumene, le italiane invece non sono neanche sfiorate, e sono pagate in regola. Il ricatto non è solo alla donna ma anche nei confronti dei figli piccoli. Le dicono: «Se accetti le mie avance ti rinnovo il contratto, se non accetti io, attraverso il mio mediatore che è il caporale, dico alla tua comunità, che sei una poco di buono».

Questo è un elemento di forte disagio per una donna, soprattutto quando è madre indiana, perché di fatto viene additata come una prostituta, ed è dunque obbligata ad accettare le avance. Ma qualcuna si è ribellata o, almeno, ci ha provato. Così alcune donne sikh alcuni mesi fa, sostenute da Gurmukh e da Marco Omizzolo, il sociologo da anni difensore dei braccianti indiani, hanno deciso di denunciare caporali e padroni, indiani e italiani.

«Ma i caporali hanno parlato coi mariti, hanno promesso un aumento dei soldi se ritiravano la denuncia. L’hanno ritirata ma lo sfruttamento è come prima». E sono riprese le minacce. «Dicono che sono amici di poliziotti e carabinieri. 'Chiamate chi volete, tanto non viene nessuno'». Eppure, ci dicono, «proprio in quella azienda dove facevano molestie sessuali ci sono una ventina di ragazze, tutte non in regola. Se controllano la chiudono». Denunce non finite in un cassetto. La difesa dei diritti delle braccianti sikh non è una battaglia persa.