Attualità

La ricerca. Omeopatia e agopuntura, efficacia non provata

Vito Salinaro martedì 12 agosto 2014
È di nuovo sotto accusa la medicina cosiddetta 'complementare'. Omeopatia e agopuntura (le più note) non possono essere pienamente accreditate, questo il rilievo mosso dalla medicina ufficiale, perché non ci sono prove della loro efficacia. Oppure, ove queste fossero esibite, peccherebbero di modalità confutabili.  A far discutere la comunità scientifica internazionale, in primavera, una ricerca australiana del National Health and Medical Research, per il quale l’omeopatia non è più efficace di un placebo e le persone che la scelgono mettono a rischio la propria salute. La drastica conclusione del documento recita: «Nessuno studio di buona qualità e ben costruito, con sufficienti partecipanti e risultati significativi, indica che l’omeopatia abbia prodotto miglioramenti di salute rispetto a una sostanza che non ha affetto sulle condizioni di salute (placebo), o che l’omeopatia abbia prodotto miglioramenti di salute pari a quelli di un altro trattamento».  Di questi giorni è invece l’ultimo studio svolto da ricercatori italiani e accreditato dall’Eupean Journal of Internal Medicine. Il lavoro mette sotto accusa i calcoli sui quali poggerebbe la credibilità delle complementari. Calcoli «inattendibili» secondo Maurizio Pandolfi, già docente all’Università di Lund, in Svezia, e Giulia Carreras, dell’Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica (Ispo) di Firenze, che smontano le medicine non convenzionali perché «le prove cliniche effettuate finora non sarebbero valide». La notizia assume un rilievo ancora maggiore se si considera che alcune di queste pratiche sono impiegate in ospedali pubblici e insegnate in facoltà mediche. E che i loro costi, sottolinea una nota del Policlinico universitario di Milano, sottraggono risorse alle cure della medicina strettamente basata sulla scienza. Ma come hanno fatto i ricercatori italiani a giungere a questa conclusione? Oggi l’efficacia delle cure mediche è espressa grazie alle procedure standard che mettono a confronto un gruppo di pazienti trattati con la terapia in esame, con un gruppo di controllo che non riceve il trattamento o ne riceve uno diverso. La differenza tra i due gruppi di pazienti viene poi analizzata con calcoli statistici che servono a stabilire se sia significativa e, conseguentemente, se una delle due terapie sia più valida dell’altra. Ebbene, per Pandolfi e Carreras «il problema delle medicine complementari non sta nel modo con cui esse sono messe alla prova, dato che questi studi clinici sono spesso ben condotti, ma nell’elaborazione statistica dei loro risultati. Infatti – aggiungono gli esperti –, la statistica comunemente usata nella moderna clinica non è adatta a valutare ipotesi di efficacia come quelle delle medicine complementari, che si discostano da principi scientifici riconosciuti». Ad esempio, «l’omeopatia infrange le leggi della chimica e l’agopuntura presuppone una improbabile energia vitale». A tal proposito gli autori portano diversi esempi e calcoli matematici «che mostrano chiaramente la relazione inversa tra la credibilità scientifica dell’ipotesi in esame e la probabilità di ottenere valori realmente significativi»: in pratica, meno l’ipotesi di partenza è credibile, più è probabile che il calcolo risulti sbagliato e giustifichi una pratica medica che non ha validità. Dunque, osservano Pandolfi e Carreras, «la significatività statistica fin qui riportata nella letteratura medica a prova dell’efficacia delle medicine complementari risulta indebitamente amplificata e quindi inattendibile: le medicine complementari non possono definirsi basate sulle evidenze, come invece avviene per la medicina ufficiale».  Tra i primi a commentare lo studio, Pier Mannuccio Mannucci, direttore scientifico della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano, che va giù duro: «Questo lavoro stabilisce chiaramente che chi pensa di avvalorare le medicine complementari con i metodi della scienza in realtà sta commettendo un grave errore». E poi, «mancando le evidenze concrete, non potrebbero e non dovrebbero essere proposte come cure complementari». Anche perché, «rischiano di distogliere fondi e risorse alla medicina seria e ufficiale, l’unica che sia stata scientificamente validata e che abbia una efficacia dimostrata con i dati».  Più cauto il giudizio di Flavia Valtorta, a capo dell’Unità di Neuropsicofarmacologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano e docente di farmacologia nell’Università Vita-Salute del capoluogo lombardo. «Lo studio non boccia le complementari ma afferma che non è facile dimostrarne l’efficacia. Prendiamo l’agopuntura: non si può fare uno studio classico 'randomizzato' (significa che un paziente ha uguale probabilità di essere trattato o non trattato, ndr) in 'doppio cieco' (cioè né il paziente né il terapeuta sanno se viene somministrato il farmaco oppure il placebo, ndr): con un farmaco lo si può fare, con l’agopuntura no, perché il paziente o lo buco o non lo buco». Ma allora vanno usate o no le complementari? Ancora Valtorta: «Le complementari non dovrebbero essere proposte come cure efficaci perché l’efficacia non è provata. Questo non significa di per sé che non lo siano. Ci sono situazioni in cui l’efficacia è difficile da dimostrare: prendiamo le psicoterapie psicodinamiche, che sono altamente individualizzate e per le quali è difficile realizzare uno studio scientifico; nel senso che ogni paziente viene trattato in maniera diversa, non c’è un trattamento standard. Oppure le terapie manuali, come i massaggi: dipendono molto dalle abilità del terapeuta, quindi anche in quel caso è difficile fare uno studio su vasta scala perché ogni caso è differente». D’altra parte, aggiunge Valtorta, va tenuto conto dell’aspetto che «investe la farmacoeconomia. Perché in presenza di risorse limitate, queste andrebbero indirizzate verso terapie scientificamente accreditate. È anche una questione di opportunità e di etica, perché proporre una cura di non provata efficacia, da una parte potrebbe illudere il paziente, e dall’altra lo porterebbe a non utilizzare terapie provate». In buona sostanza, conclude l’esperta, «per disturbi di piccola entità l’utilizzo di farmaci complementari può essere ammesso: se un paziente ha un mal di schiena legato all’artrosi e sta meglio tenendo in mano delle pietre, poco male. Ma se un paziente ha una malattia seria come un tumore, il rischio è enorme e non va corso. A tal proposito, mi torna alla mente l’esperienza della terapia Di Bella che non solo è costata molte vite, in termine di terapie mancate, soprattutto a bambini; ma è costata tanto anche alle casse statali».