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I dati Istat. «Grazie a chi si sposa». Le convivenze? Ecco perché ci interrogano

Antonella Mariani giovedì 21 novembre 2019

Fra Marco Vianelli, direttore dell'Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Cei (Siciliani)

«Gratitudine» per coloro che scelgono di sposarsi e diventare così un segno per la comunità. È quasi commosso, commentando i dati dell’Istat (QUI L'ARTICOLO), fra Marco Vianelli, classe ’66, veneziano, mediatore e presto consulente familiare, giudice di tribunale ecclesiastico e da ottobre direttore dell’Ufficio famiglia della Conferenza episcopale.

Direttore, l’Istat registra 4.500 matrimoni in più dell’anno passato, quasi tutti attribuibili a prime nozze. Come interpreta questo dato?

Innanzi tutto con gratitudine. In primis gratitudine per coloro che hanno deciso di diventare segno, di compromettersi con una comunità. Di raccontare al mondo che non basta amarsi, ma che quest’amore deve essere messo a disposizione anche degli altri, perché ogni dono (e l’amore sponsale è una vocazione e quindi un dono) è per una missione. Secondariamente gratitudine per coloro che hanno accompagnato questi“giovani” in questa scelta. Nel sì di due, oggi più che mai, c’è un villaggio.

I dati Istat interrogano anche la pastorale dei fidanzati: cosa vuol dire preparare al matrimonio sposi di 33,7 anni in media e spose di 31,5? Secondo la sua esperienza, le parrocchie si sono già adeguate a questo spostamento anagrafico sempre più accentuato?

Le parrocchie sono “presidi” sul territorio estremamente preziosi. Sono memoria e profezia. In questo tempo sono esposte a grandi mutamenti e trasformazioni (lo spopolamento, la ridefinizione in unità pastorali, la mancanza di clero…) ed indubbiamente molte vivono in affanno. Ma sono comunque il luogo dove la comunità ancora custodisce e accoglie le domande complesse di un territorio. A volte le risposte non sono sempre adeguate o efficaci, ma esprimono il più delle volte forme di cura pastorale, c’è un reale desiderio di essere comunità vive e significative e non solo strutture burocratiche. In tutto questo, accompagnare persone adulte al “per sempre” diventa una grande sfida. Perché ci troviamo davanti persone più grandi d’età sì, ma non necessariamente più libere o più stabili. I giovani/adulti che si affacciano ai percorsi in preparazione alla vita nuziale risentono comunque di un tempo di precarietà, d’incertezza e a volte è proprio la possibilità di dire “per sempre” a una persona che li rinfranca in un cammino che li vede spaesati e “disperanti”. Inoltre più grandi vuol dire anche più feriti, con tutto ciò che questo comporta in termini di ascolto e proposta. Ma il problema di fondo è che più grandi non necessariamente vuol dire più credenti, più maturi nella fede. A mio avviso oggi la sfida più grande è proprio sul piano della fede, perché il matrimonio è una “cosa” per adulti.

Come viene affrontato a livello pastorale il fenomeno consolidato delle convivenze?

Come sempre si parte dall’accoglienza. Oggi penso sia un fatto sdoganato che l’incontro con l’altro è sempre un epifania, uno svelarsi, un’opportunità. Questi fratelli e sorelle ci aiutano a fare un esame di coscienza. Quale narrazione abbiamo fatto del matrimonio? È vero, questo è un tempo liquido, forse gassoso, ma noi come abbiamo raccontato l’amore a questi “giovani”? Perché sembra non essere più bello dirsi “per sempre”? Che cosa li spaventa? Forse perché dell’amore abbiamo messo in luce solo la fatica e non la gioia, forse non siamo riusciti ad affascinarli dei legami, a far loro scoprire che si è veramente liberi solo quando si appartiene “per sempre” a Qualcuno. C’è poi il grande miracolo di molte coppie di conviventi che chiedono di sposarsi. Allora diventa interessante mettersi in ascolto di che cosa cercano nel matrimonio! Perché apparentemente hanno tutto. Potrebbero continuare nella convivenza, ma arriva un momento che non basta. Arrivano con una domanda non banale, che va ascoltata ed evangelizzata e che può a sua volta diventare evangelizzante: abbiamo scoperto che nell’amore c’è “di più”! Io vedo in questo una grande opportunità, un “segno dei tempi”.

C'è poi una grande diversità territoriale: al Sud l'80% delle prime nozze tra sposi entrambi italiani è religioso, contro il 59% al Nord. Un "tesoretto" da preservare o un retaggio tradizionale che andrà a sparire?

In questo cambiamento d’epoca non ci sono tesori da conservare, ma persone da incendiare. Il Papa parlando di una Chiesa in uscita ci ricorda che non possiamo rassicurarci di posizioni prese. Non possiamo pensare questo tempo come una guerra di trincea, che verrà vinta per sfinimento o per azioni eroiche di singoli. Penso innanzi tutto che dobbiamo smetterla di sentirci assediati e di pensarci in guerra, non penso che sia questa una categoria che appartenga a noi cristiani. È un tempo che grida la paura della dispersione, dissoluzione e lo fa molte volte alzando muri e alzando la voce, mentre lo Spirito ci aiuta a comprendere che siamo in un tempo che ha bisogno di testimoni credibili e soprattutto contenti, gioiosi della scelta fatta. Si dice che la bellezza salverà il mondo, ma se non sappiamo renderla evidente e attraente nulla resterà.

C’è da ultimo il tema dei single: se meno gente si sposa, inevitabilmente più gente rimane sola… La Chiesa come risponde a queste solitudini?

Questa è una sfida non semplice da affrontare. Questa condizione non sempre è frutto di una scelta libera, gioiosa e consapevole. Molto spesso ci sono delle ferite che hanno impedito il realizzarsi di una vocazione sponsale. Anche a questi figli di Dio, con delicatezza e tenerezza, va annunciata la vocazione nuziale, il progetto di Dio a far nozze con ciascuno di noi, perché la vita battesimale è una vita nuziale. Nessuno è destinato ad essere solo; qualcuno amava dire “soli, ma non da soli”. Penso che questi fratelli siano preziosi per la vita della Chiesa, che non solo debbano esser accolti ma che possano restituirci parole di Vangelo.