Attualità

La storia. Il cardiochirurgo: nel mio petto 2.357 cuori

Lucia Bellaspiga sabato 13 dicembre 2014
Besir, 16 giorni di vita e già una condanna a morte: un aereo lo avrebbe dovuto portare in Europa per operare il suo cuore malato, ma stava così male che il volo partì senza di lui. «L’ho visto in quel letto di un ospedale curdo, moribondo, e mi sono trovato di fronte alla solita scelta: operarlo lì, senza nessun attrezzo utile per un cuore tanto piccolo, oppure lasciarlo andare. Ho deciso di correre il rischio, anche perché sua mamma aveva già perso altri due fratellini cardiopatici...». Besir, che oggi ha 6 mesi e cresce sano, è solo uno tra le migliaia di racconti di Alessandro Frigiola, primario di cardiochirurgia pediatrica all’Irccs di San Donato Milanese e fondatore dell’associazione 'Bambini cardiopatici nel mondo'. Il suo minuscolo cuore è uno dei 2.357 che ad oggi il medico italiano ha riavviato, guarito, restituito in extremis alla vita. Da 21 anni Frigiola organizza ogni mese, senza eccezione, una settimana di 'missione' negli angoli più poveri del pianeta, portando con sé ogni volta un’équipe di medici, infermieri e tecnici, tutti volontari. «Ormai siamo a 326 missioni operatorie e l’ho potuto fare grazie a una moglie che ha tenuto sempre unita la famiglia, le nostre due figlie e oggi i cinque nipotini – spiega Frigiola –, ma soprattutto ai 150 specialisti dei più avanzati ospedali pediatrici di tutta Europa che a turno mi seguono».  In Siria, Perù, Camerun, Paraguay, Kosovo, Iraq, Romania, Mali, Moldavia, Kurdistan, Etiopia, Cina, India, Yemen... insomma, in oltre trenta tra i Paesi più disastrati l’associazione di Frigiola non si limita ad operare i bambini condannati a morte certa, ma getta le basi perché le missioni poi vadano avanti con le proprie gambe: «Lì sul posto fondiamo ospedali di cardiologia pediatrica e li dotiamo delle migliori attrezzature, mentre qui al Policlinico San Donato formiamo i loro medici. Posso assicurare che oggi tra i cardiochirurghi più competenti al mondo ci sono tanti di loro, come il medico curdo Halkawt Nuri, che si è rivelato un talento impressionante, o in Siria il direttore del Damasco Cardian Center, Youssef Tamman». Durante le missioni si visita senza sosta, anche 250 bambini per volta, iniziando dai più gravi in una tragica classifica che non si vorrebbe mai fare: «La mia fede cristiana e la mia etica di medico – spiega Frigiola – mi hanno sempre fatto pensare che nessuno può restare a guardare se un bambino che potrebbe essere salvato muore per mancanza di mezzi. È un’ingiustizia inaccettabile». È inaccettabile che nei Paesi ricchi i bimbi cardiopatici abbiano un rischio mortalità sotto il 5% e nei Paesi in via di sviluppo sopra il 90%. Unica discriminante la ricchezza.  Di recente Frigiola e la sua èquipe 'modulare' sono stati per la prima volta anche in Senegal, dove il cardiologo (che per inciso ha superato i 70 anni ma ne dimostra venti di meno) ha preso la zappa e ha posato la prima pietra di quello che entro due anni sarà un Cardiocenter con due sale operatorie, 12 posti letto in terapia intensiva, 25 in degenza pediatrica, un centro di accoglienza per le mamme e un piccolo college per formare medici locali. «Sarà il polo cardiochirurgico di riferimento per tutta l’Africa occidentale e i suoi 200 milioni di abitanti. La scelta è caduta su Dakar proprio perché ha il principale aeroporto di tutto il continente». Intanto, però, c’è stato anche il tempo per curare sedici piccoli pazienti, troppo gravi per attendere il Cardiocenter e operati nel vecchio ospedale di Dakar: «Siamo sempre lì, al bivio tra rischiare il tutto e per tutto oppure fare i difficili – dice Frigiola –. Tutti e sedici sarebbero morti entro un anno e noi non prendiamo in considerazione nemmeno per un attimo di lasciar perdere una vita. In luoghi in cui non esistono cannule e tubicini così piccoli da poter operare un cuoricino, ce li creiamo...». Anche la cannuccia della biro può servire. E la corsa non finisce mai, perché almeno 800mila bambini l’anno hanno potenzialità di operarsi vicine allo zero: «Quando sono troppi, dobbiamo decidere chi operare e chi no e questa è la cosa più difficile – scuote la testa il cardiologo –. Io scelgo quello che avrà la possibilità più alta di farcela, ma è terribile».  Sulla scrivania giornali scritti in tutti i caratteri del mondo raccontano i miracoli dell’associazione e mostrano bambini che finalmente sorridono, con genitori umili e increduli. E poi sale operatorie degne della migliore Europa, sorte invece in mezzo alla miseria, grazie a donazioni private, concerti, Rotary o Lions, partite di calcio o gare di golf: «Le attività che abbiamo messo in piedi noi italiani in questi trenta Paesi non le ha nessuno al mondo – sottolinea con sincero orgoglio –, in questo l’Italia non è seconda a nessuno ed è bene che si sappia».  Il prossimo obiettivo è l’'Heart project for Africa', una 'cintura' di ospedali lungo dieci Paesi. Servono 8 milioni di euro, la metà li ha già trovati. «Ho fatto Etiopia, Camerun, Senegal e Mozambico, ora faremo anche Guinea Bissau e Namibia, ce ne restano solo quattro. Naturalmente senza tralasciare le missioni mensili», sorride, e apre l’agenda dei prossimi impegni: domani Romania, a gennaio Tunisia, poi Egitto, Etiopia, Kurdistan...