Attualità

L'inchiesta fermata. Quei soldi (e armi) in arrivo dall'ex Urss inseguiti da Falcone

Marco Birolini venerdì 3 agosto 2018

Il giudice Giovanni Falcone

Via Rossetti, centro di Trieste, un mattino di primavera del 1992. A un portone di un palazzo elegante bussano i finanzieri del Gico. Hanno l’ordine di perquisire la Sovit Trade, piccola società che, secondo i pm di Rimini, ha legami con la camorra. Il colonnello Vincenzo Cerceo, comandante del gruppo, non sa che sta per spalancare una finestra sui traffici inconfessabili tra Est e Ovest. Attorno a lui il mondo va di corsa: l’Urss si è sgretolata e l’Italia va incontro alla stagione delle stragi.

Due storie distanti, ma forse non così distinte. Cosa lega Mosca all’attentato di Capaci? Un fiume di rubli, di cui Cerceo scopre un piccolo ma importante rivolo. Che scorre accanto a un traffico di armi e di materiale nucleare, e che di fatto farà naufragare la sua carriera.

L’ufficiale in quel momento non sa che anche Giovanni Falcone sta guardando a Est: all’inizio di maggio il giudice riceve la visita del procuratore russo Valentin Stepankov, interessato all’onda anomala di denaro sovietico che sta allagando l’Europa e l’Italia in particolare. Il sospetto è che si tratti della più grande operazione di riciclaggio della storia, con la regia della mafia siciliana. Falcone vuole approfondire e mette in agenda un viaggio a Mosca. Non farà in tempo.

Ventisei anni dopo, l’ex colonnello Cerceo racconta ad Avvenire cosa accadde in quei giorni convulsi. «Negli uffici della Sovit trovammo una montagna di documenti, soprattutto fax in inglese e francese. Ma anche in russo e bulgaro. Quello che c’era scritto era inquietante».

Il Gico scopre che la Sovit fa da intermediaria tra l’universo post sovietico e il resto del mondo. E mette sul mercato merce particolare. «Un fax spiegava che in una banca di Dusseldorf erano disponibili quantità di red mercury, il famigerato mercurio rosso. Pronta consegna, 24 mila dollari al chilo. Noi non sapevamo cosa fosse e ci informammo. Materiale nucleare».

Il mercurio rosso è sempre un mistero: 'pacco' rifilato da abili truffatori o nome in codice di una sostanza radioattiva? Di certo c’è che in quegli anni molti lo vogliono, soprattutto qualche governo del terzo mondo. E i russi lo vendono al miglior offerente. A tirare le fila del business, come documentò anche la Digos di Udine, ex ufficiali del Kgb. Ma in quelle carte c’è anche altro.

«C’erano riferimenti a materiale militare in vendita. Fucili o carri armati, volevamo scoprirlo. E soprattutto si parlava di rubli. Cinque milioni, che all’epoca valevano circa 2 miliardi di lire. In un fax si manifestava la disponibilità a trasferirli a Miami. Per farne che, era da capire. Ma l’inchiesta si bloccò».

I superiori di Cerceo lo scoraggiano: «Mi dissero che era solo una colossale truffa. Risposi: va bene, ma vediamo chi c’è dietro. A quel punto si spazientirono e furono ancora più chiari: 'Ma non lo capisci che a Roma non vogliono che vai avanti? Fai come vuoi, ma ci saranno conseguenze' ». E così accade. Cerceo è già in attesa di trasferimento: il 1° ottobre lascerà Trieste. Ma dopo una settimana arriva l’ordine: trasferimento immediato, dal 1° luglio. Il colonnello non si piega.

Furioso, rifiuta e presenta domanda di congedo. Sa che gli restano pochi giorni per finire l’indagine e stringe i tempi. «Fu la segretaria a dirci chi era il vero proprietario della Sovit. Arrivava all’improvviso e strigliava i prestanome. Non si sapeva mai dove dormisse ed esibiva una 44 magnum. La segretaria se ne andò, stanca delle sue avance. Il nome se lo ricordava bene: Daniel Abramovic».

Sconosciuto ai più, è una celebrità per gli investigatori. Spunta anche in un’informativa della questura di Udine, secretata fino al 2006. «Su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale - spiega Cerceo-. Ma è un trucco ben noto: in caso di arresto, i russi chiedono l’estradizione e ti riportano a casa. Questo significa che era un uomo dei servizi. Infatti era considerato il braccio destro del colonnello Alexander Kuzin». Un altro nome da brividi. La Digos di Udine lo riteneva «a capo di una articolata organizzazione legata all’ex Kgb, dedita al traffico di materiale strategico e nucleare», in probabile partnership con la mafia russa. Kuzin fu a lungo braccato anche dall’ex agente segreto Aldo Anghessa, che sequestrò cesio 137, uranio e plutonio.

Le indagini però non sono mai sfociate in sentenze e i misteri sono rimasti. La Sovit sparì nel nulla dopo la perquisizione. Cerceo consegnò le carte e si avviò al congedo, l’inchiesta finì lì. Resta un rimpianto che punge il cuore. Non aver potuto risalire alla fonte e ai destinatari di quei rubli. «Se Falcone avesse visto quei fax, magari avrebbe avuto conferma dei suoi sospetti. E chissà…».

Rapido 904. Così saltò la cattura del terrorista Schaudinn

Nel giugno 1992 il colonnello Cerceo fu protagonista anche di un’altra vicenda degna di una spy story. «Aldo Anghessa, agente accreditato dal Cesis (il comitato che allora sovrintendeva i servizi segreti, ndr) mi offrì l’opportunità di catturare il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, l’artificiere della strage del rapido 904.

Era in Croazia, protetto da una delle tante milizie coinvolte nel conflitto jugoslavo. Il piano era di attirarlo in Italia con uno stratagemma, facendogli passare il confine a bordo di un furgoncino in compagnia di due infiltrati. Noi del Gico avremmo dovuto fermare lui e lasciar fuggire gli altri. Era tutto pronto, ma all’ultimo momento l’operazione saltò senza spiegazioni». Una testimonianza che Cerceo rese anche a Pierluigi Vigna: l’allora procuratore di Firenze stava indagando sulla latitanza di Schaudinn e sulle presunte coperture fornitegli da elementi dei servizi.

Un altro intrigo che non è mai stato sciolto. «Un anno fa, leggendo un’inchiesta giornalistica - conclude Cerceo - , ho appreso che a mettersi di traverso fu probabilmente qualcuno dei carabinieri: a quanto pare Schaudinn doveva essere consegnato alla Germania». Una beffa anche per Anghessa, regista dell’operazione. Cerceo, 73 anni, lasciò la Guardia di finanza nel 1994: il suo caso fu oggetto anche di un’interpellanza parlamentare. Dopo il congedo entrò nel Movimento Finanzieri Democratici e divenne una voce critica, denunciando più volte i casi di corruzione all’interno del Corpo. Laureato in psicologia, ama collezionare libri. Ne ha più di 15 mila, in gran parte dedicati a politica e religioni: tra i volumi spicca l’opera omnia di Lenin.