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Intervista esclusiva. Pinotti: non siamo in guerra ma sconfiggeremo il Califfato

Vincenzo R. Spagnolo martedì 25 ottobre 2016

«L'Italia non è in guerra con nessuno. E ogni qualvolta che qualcuno sostiene che il nostro Paese sia “in guerra”, sembra che non abbia alcuna conoscenza di ciò che realmente i nostri militari stanno facendo nei diversi teatri…». Affronta diversi snodi cruciali, il colloquio di Avvenire col ministro della Difesa Roberta Pinotti: dalla presenza militare italiana in Iraq e Libia, passando per i casi delle bombe di sospetta fabbricazione italiana utilizzate dall’Arabia Saudita sullo Yemen e dell’inchiesta giudiziaria su ufficiali di Marina per omesso soccorso in un naufragio di migranti, fino alla battaglia politica del referendum costituzionale, in cui il suo partito, il Pd, rischia una lacerazione definitiva.

Un’intervista che, tuttavia, parte da un passaggio che lei stessa ritiene dirimente: «Lo ripeto ancora una volta: non siamo in guerra con nessuno. Purtroppo, siamo un Paese immaturo quando si tratta di affrontare temi delicati come questo. L’Italia, lo ricordo agli smemorati e agli irresponsabili, fa parte di organizzazioni internazionali quali l’Onu, la Nato, l’Unione Europea. E non si sottrae all'impegno, previsto in Costituzione e delineato nell'ambito delle varie organizzazioni internazionali, di favorire le condizioni per il raggiungimento della pace e della stabilità su alcuni fronti caldi del pianeta».

Esaminiamoli, ministro, quei fronti. A Mosul ora infuria la battaglia contro le milizie del Daesh. Di quale natura è l’apporto militare italiano in quell'area?
In Iraq abbiamo un contingente di oltre 1.300 uomini, fra Aeronautica, Esercito e Carabinieri dislocati a Erbil, Baghdad e a Mossul. Siamo certamente presenti in quell’area per contribuire alla sconfitta del Daesh, ma il nostro apporto rimane quello di addestrare i peshmerga e i soldati iracheni, così come le forze di polizia locali. È questo il nostro supporto all’Iraq nella lotta per sconfiggere l’orrore del Califfato. A Mossul, a giorni finiremo di dispiegare lo schieramento a protezione dei lavori che la ditta italiana Trevi, che ha già iniziato a mettere in sicurezza una delle più importanti infrastrutture irachene. Non è previsto un nostro impiego in eventuali scontri o battaglie. È importante che a liberare quei territori, e il ragionamento vale anche per la Libia o per altri Paesi, siano gli iracheni.

Anche in Libia, tuttavia, molto si è detto sulla presenza militare italiana. Quanti sono e quali funzioni svolgono i nostri soldati?
In Libia, la presenza italiana è ancor più connotata da una valenza umanitaria. Noi siamo lì con 300 militari e abbiamo costruito un ospedale da campo, operativo dalla settimana scorsa, con 50 posti letto. Agiamo nel rispetto della decisione dell’Onu e, su richiesta del legittimo governo di Al Serraj , per fornire l'aiuto invocato. Nel nostro caso, ci è stato chiesto di curare i feriti libici ed è ciò che facciamo. Ovviamente, siccome in Libia ci sono ancora tensioni e scontri con le milizie di Daesh, è bene che l’ospedale sia una struttura militare, in modo da essere protetto da eventuali attacchi. Inoltre, nell’ambito della missione europea “Sofia”, stiamo contribuendo all’addestramento la Guardia Costiera libica, in modo che possa quanto prima, e autonomamente, contrastare l’operato gli scafisti e la tratta dei migranti lungo le proprie coste, così come il traffico illegale di armi.

La turba la notizia che alcuni ufficiali della Marina militare siano indagati per omissione di soccorso e omicidio colposo in merito a un naufragio di migranti del 2013?
Come ministro della Difesa, non intendo esprimermi nel merito di un’indagine giudiziaria in corso. Ciò detto, non posso che manifestare rammarico vedendo ufficiali valorosi messi sotto procedimento, con tutto ciò che comporta per la loro dignità e la loro professionalità. Sono stata in mare e ho visto quegli ufficiali operare al limite dell’eroismo, senza riposare né di giorno né di notte, con marinai che si sono tuffati fra le onde per salvare vite umane. Ebbene, dopo centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini salvati in questi anni – e in qualche caso fatti nascere a bordo –, che ci possa essere ora anche solo il dubbio che abbiano causato la morte di qualcuno mi fa provare rammarico. L’inchiesta comunque non toglie a quei marinai l’onore per ciò che hanno fatto. Sono certa che quell'indagine si chiuderà in tempi rapidi e positivamente per i militari coinvolti.

Le opposizioni hanno criticato l'esecutivo per la partecipazione di nostri militari nel contingente Nato nei Paesi baltici, ai confini con la Russia. Ciò potrebbe costituire una sfida al governo di Putin?
A parte il fatto che l’alzata di scudi delle opposizioni è stata surreale, perché la decisione era stata presa nel vertice di luglio a Varsavia ed era dunque nota, la presenza italiana sarà poco più che simbolica. E le misure alle quali partecipiamo sono una forma di rassicurazione verso i Paesi più esposti. Il Governo ha sempre ritenuto che non si debba alzare il livello di frizione con Mosca, con la quale noi abbiamo sempre mantenuto un dialogo, e ha dato un forte impulso alla prosecuzione e del tavolo di dialogo Nato-Russia.

Nel martoriato scenario siriano, l’Italia non ha militari. Ma cosa può fare, d’intesa con la comunità internazionale, per porre fine ai massacri a partire dalla tragedia di Aleppo?
L’Italia, dal punto di vista militare, non è impegnata in Siria. Ma ha lavorato e lavora, col ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, su tutti i tavoli diplomatici, sostenendo l’azione dell’Onu e la necessità di corridoi umanitari per la popolazione civile. E c’è la mano italiana, con Sant’Egidio e altre realtà, nei voli che stanno trasportando in Europa cittadini siriani per sottrarli agli orrori del conflitto.

In Parlamento sono state depositate diverse interrogazioni sul fatto che bombe con codici di produzione italiani, di un'azienda con sede in Sardegna, siano state utilizzate dall'Arabia saudita nel conflitto con lo Yemen. Lei ha risposto che ciò avviene «nel rispetto delle norme vigenti». Ma chi sovrintende al controllo dell'export di armamenti italiani?
Non certo il ministero della Difesa, come ogni parlamentare dovrebbe sapere. Tutto ciò che riguarda l’export di armi, in base alla legge 185 del 1990, passa al vaglio di un organismo presso il Ministero degli Esteri: l’Uama. Quando una ditta italiana ha un contratto all’estero per la fornitura di armi, deve farlo esaminare a quella struttura, che ne verificherà la compatibilità con le leggi vigenti oppure no. E ogni anno, la relazione con tutti i dati relativi a quell’export viene inviata al Parlamento, in virtù della trasparenza.

Rispetto delle norme a parte, non la angoscia pensare che ordigni made in Italy abbiano già causato centinaia di vittime in un Paese straniero?
Certo che mi angoscia. Sempre, in assoluto, non solo se gli ordigni sono italiani. La legge 185 del 1990, lo ricordo, era nata proprio da un tipo di constatazione: ci piacerebbe un mondo senz’armi, ma posto che per ora non è possibile, pretendiamo regole precise e il massimo della trasparenza.

E questa trasparenza, secondo lei, nell'export di armi in Arabia saudita c’è?
È garantita dal fatto che esista la normativa alla quale facevo riferimento prima. Non se ne occupa il mio ministero, ma non ho motivi per pensare che non funzioni secondo le regole.

Torniamo nel nostro continente. L'idea di una Difesa europea è un obiettivo ancora possibile, in una Ue divisa come quella attuale?
Una capacità europea di agire insieme per la nostra sicurezza e difesa resta la strada da percorrere. Negare la possibilità di usare lo strumento militare è come privarsi di una delle possibilità di azione, che in alcuni casi è assolutamente irrinunciabile per garantire una cornice di sicurezza all'azione degli altri strumenti.

Ministro, lasciamo l’ambito militare. Rispetto al Referendum costituzionale, lei è schierata col resto del governo sul fronte del Sì. Diversi sondaggi danno il No in vantaggio. Ritiene che fino al 4 dicembre riuscirete a convincere la maggioranza degli italiani delle vostre ragioni?
I sondaggi sono altalenanti, nell’ultima settimana ne abbiamo visti di segno diverso. Secondo me, i militanti del No hanno già motivato al massimo le proprie “truppe”. Ma molti italiani sono ancora indecisi, perché non pienamente informati. Sono tanti e bisogna spiegare bene i vantaggi che porteranno queste riforme. Più persone andranno a votare con chiarezza sui contenuti e meno giocheranno le componenti di “personalizzazione” anti renziana che tengono unito un fronte del No eterogeneo, che va da Civati a Gasparri. Se sapremo far questo, il Sì avrà ampie possibilità di vincere.

Il suo partito, il Pd, è sempre più lacerato. C’è chi conduce una battaglia "personale" contro il premier…
Credo che lo scontro fra alcuni (Massimo D’Alema e Matteo Renzi per intenderci) sia anche troppo enfatizzato mediaticamente. Tutti i sondaggi sull'elettorato del Pd rilevano che la stragrande maggioranza degli iscritti è orientata verso il Sì. Apprezzo la lealtà di Gianni Cuperlo, che ha accettato di dialogare in seno al Comitato sulla legge elettorale.

Non teme che, quale che sia il risultato del referendum, una frattura nel Pd sarà inevitabile?
D’Alema, dai toni e dalle parole usate, sembra aver fatto la sua scelta. E mi dispiace aver sentito da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza espressioni analoghe. Ma la posta in gioco per il Paese è così alta, che io mi auguro che alcuni dentro il Pd non perdano la bussola…

Il Pd nel suo insieme non l’ha persa?
Ritengo di no.