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Il reportage. Libia, migranti in ostaggio: «L'Ue prima ci paghi»

Nello Scavo inviato a Zaltàn (Libia) giovedì 7 settembre 2017

«Abbiamo l’ordine di non fare partire i barconi e di no lasciare andare gli stranieri. I negri sono la nostra assicurazione ». La rapidità con cui i trafficanti di uomini si adattano alle opportunità del business non è sorprendente. «Altrimenti, l’Italia e l’Europa non ci pagheranno». Karim, il contrabbandiere di nafta che ci riporta fuori dalle insidie libiche, spiega due volte nel suo perfetto italiano cos’hanno detto alcuni manovalidel traffico di esseri umani incontrati sulla via del ritorno in Tunisia.

«Più gente rimane da noi e più dovranno pagarci per farci smettere», dicono con il tono riluttante di chi deve proferire un’ovvietà. Il meccanismo con cui sperano di arricchirsi è in effetti elementare quanto l’economia di guerra. Gli aiuti promessi serviranno, nelle intenzioni, a contribuire alla ristrutturazione del Paese: ospedali, scuole, strade, centri di detenzione per migranti. Ma in una terra nella quale la corruzione è la regola, poche decine di migliaia di euro possono costituire una vera fortuna. Il cambio ufficiale è di 1,6 dinari libici per un euro. Al mercato nero dei cambiavalute, però, per ogni euro si ottengono circa 9 dinari.

La tangente, di prassi, non è mai inferiore a un decimo, spiega Karim che su queste percentuali deve far correre il contrabbando di carburante. E con la velocità con cui è abituato a fare di conto, prevede che dei 6 miliardi attesi dall’Ue, «sarete fortunati se le bande ne intascheranno solo 600 milioni » che al tasso di cambio del mercato nero vuol dire «l’equivalente in dinari di almeno 3 miliardi di euro». Molto più di quanto possa fatturare il traffico di migranti. Gli scafisti, sedendosi al tavolo della spartizione, stanno perciò fa- cendo valere il peso economico della rinuncia alle traversate, e questo spiega cosa voglia dire «più gente rimane da noi e più dovranno pagarci per farci smettere».

Quel che accadrà dopo ai migranti imprigionati, si vedrà. Il potere del denaro è la chiave di tutto. Sulla carta la Libia dispone di risorse sufficienti a rimettere in sesto un Paese da 6 milioni di abitanti e grande sei volte l’Italia. Un malloppo che alimenta appetiti e tensioni. A partire dal marzo 2011 l’Onu ha infatti ordinato il blocco di 67 miliardi di dollari, accumulati all’epoca dal colonnello Gheddafi e depositati - in fondi, conti e partecipazioni - nelle banche di mezzo mondo. Lo scorso 20 giugno il Consiglio di sicurezza ha prorogato il congelamento fino al prossimo 15 novembre. E non è un caso che ora il presidente Serraj chieda di poter attingere a quei fondi. Al-Mahdi Al-Majrbi, ambasciatore di Tripoli all’Onu, ha esposto il perché della richiesta: «L’economia in Libia è in continuo calo, le banche straniere si rifiutano di collaborare, gravandoci con interessi negativi che portano a perdite continue». Per ottenere l’accesso almeno a una prima tranche, Tripoli deve offrire rassicurazioni alle istituzioni internazionali. A cominciare dai diritti umani. Ieri la stampa locale ha riportato l’annuncio del Dipartimento per l’immigrazione, che ha disposto la chiusura di sette dei trenta centri di detenzione governativi. Una decisione «dovuta alle violazioni registrate da alcune organizzazioni internazionali», riferisce un portavoce. Sarebbe la prima volta in cui il governo riconosce le gravi carenze delle prigioni per immigrati. Le sette strutture chiuse sarebbero a Tripoli, Sorman, al-Qalaa e al-Khums. Milad al-Sàidi, funzionario del dipartimento, ha spiegato che le strutture «erano state create in passato in modo caotico e non studiato e non erano conformi ai diritti umani ».

I migranti verranno trasferiti negli altri centri, che secondo le Nazioni Unite dovrebbero però chiudere subito. «Come succede in molte situazioni difficili dal punto di vista umanitario - ha osservato Carlotta Sami, portavoce dell’Acnur in Italia, ragionando sugli sviluppi libici - la situazione è molto ambigua, non ci sono dubbi su questo». Anche il generale Haftar, bellicoso avversario del governo Serraj, cerca di mostrarsi interessato alla questione, contribuendo alla ricerca dei migranti fantasma. Ieri 16 corpi sono stati trovati nel deserto, vicino al confine con l’Egitto. Un portavoce del Libyan National Army, l’esercito di Haftar, ha aggiunto che «ricerche sono ancora in corso e al momento non sono disponibili altri dettagli sulle identità dei migranti».

La ritrovata attenzione per la sorte degli immigrati secondo gli osservatori più smaliziati avrebbe scopi non proprio umanitari. Ma questo la gente degli sperduti villaggi che incontriamo nella corsa verso la Tunisia, non lo sa. Karim deve fare un’ultima sosta prima del posto di controllo sul confine. L’autocisterna accosta nei pressi di un benzinaio a Zelten, dove i tornanti piatti si lasciano alle spalle Zuara, roccaforte di scafisti e miliziani, ammesso che si possano distinguere gli uni dagli altri. Basta fare qualche passo a piedi, in attesa che Karim concluda un affare, per ritrovare scene di apparente ordinarietà. Rivoli d’acqua rossastra scivolano da sotto alcuni portoni di legno azzurro. Ai bambini più grandi è concesso il rito della strada. Circondano a gruppi cataste di rovi e legna su cui incenerire quel che resta del montone sgozzato il giorno dell’Hajd, la festa del Sacrificio, mentre le donne lavano via gli schizzi di porpora rappresa che fanno puzzare gli androni di cemento e terra battuta. A un angolo tra due vie secondarie, sotto a un edificio mai stato bello e che i combattimenti hanno trasformato in una scatola di mattoni color sabbia completamente traforata, un ragazzo prova a rimettere a nuovo una rete da letto che vuol dipingere di arancione.

L’unica tinta sgargiante in un paesaggio colorato di sola polvere. E se a Tripoli l’erogazione dell’elettricità viene sospesa in meda per 12 ore al giorno, qui nel-l’ovest, Insciallah. Se Dio vuole domani tornerà un po’ di vento e ci si potrà rinfrescare almeno con quello. «Voi italiani siete pazzi, oppure stupidi», dice il ragazzo che indossa una maglia della Juve con il 10 di Del Piero. «Ho studiato - spiega alternando italiano a inglese– e da cent’anni volete insegnarci il galateo. Non l’avete ancora capito che non riuscirete mai ad addomesticarci. Noi siamo il vostro petrolio, non saremo mai i vostri cani da compagnia». Ha una ricetta per il futuro della Libia. «Quella degli americani quando sbarcarono in Sicilia – dice grattandosi la barba rada –. Mettetevi d’accordo con i capi delle comunità, lasciate fare a loro, e non ci saranno problemi. Forse adesso cominciate a capirlo: se volete ottenere qualcosa dovete fare come i marines con la mafia. Ma forse adesso lo avete capito».