Attualità

Emergenza carcere. Più detenuti e meno lavoro dietro le sbarre

Antonio Maria Mira venerdì 28 giugno 2019

Mentre tornano ad aumentare i detenuti, e si ripropone l’affollamento delle celle, diminuisce il lavoro in carcere. Non succedeva da almeno sette anni. È quanto emerge dalla 'Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti' per l’anno 2018, inviata al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sovraffollamento e meno lavoro, un accoppiata molto pericolosa. Anche perché, come si legge proprio nelle prime righe della Relazione «il lavoro è ritenuto dall’Ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato Costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa». E invece, su questo fronte, il 2018 ha tutti dati negativi. Sia in numeri assoluti che percentuali.

Lo scorso anno, infatti, i detenuti lavoranti sono stati 17.614, rispetto ai 18.405 del 2017, il 4,29% in meno. Eppure nello stesso periodo i detenuti in carcere sono invece saliti da 57.608 a 59.655. Un aumento di presenze che non ha portato ad un aumento del lavoro. Così nel 2018 la percentuale dei detenuti lavoranti rispetto al totale è stata del 29,52%, rispetto al 31,94% del 2017. Ed è il primo risultato negativo almeno dal 2012, quando i detenuti lavoranti erano solo il 21,01% (con una popolazione carceraria di 65.701 persone). Nella relazione si prova a trovare una giustificazione ricordando che «nell’ottobre del 2017, si è provveduto ad adeguare le retribuzioni dei detenuti lavoranti, ferme dal 1994, ai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, così come previsto dall’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario». Aggiungendo che «l’aumento medio delle retribuzioni, è stato di circa l’80%, incidendo sui livelli di occupazione all’interno degli istituti penitenziari». Dunque l’aumento delle retribuzioni ha provocato un calo dei detenuti lavoranti? La classica coperta troppo corta? Eppure le assegnazioni sul capitolo delle retribuzioni per i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni sono cresciute molto, passando dai 50-60 milioni fino al 2016 ai 100 milioni del 2017, e anche lo scorso anno l’aumento non si è fermato, arrivando a 110 milioni.

Ma è davvero solo una questione di fondi? Se andiamo a leggere altri punti della Relazione possiamo vedere che a calare sono tutti i dati. Così i detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria in attività industriali (officine e laboratori interni al carcere), sono scesi da 655 a 637, interrompendo così anche per questa attività “specializzata” il trend positivo degli ultimi sette anni. Stesso discorso per i detenuti impegnati presso «colonie e tenimenti agricoli», passati dai 420 del 2017 ai 375 del 2018. E il calo, purtroppo, ha riguardato anche l’importante settore del lavoro esterno al carcere, preziosa occasione di recupero e reintegrazione. Al 31 dicembre 2018 i detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni erano 2.386 rispetto ai 2.480 del 31 dicembre 2017. All’interno di questa cifra l’unico dato non negativo sono i detenuti che lavorano grazie alla 'legge Smuraglia', che prevede misure di vantaggio per le cooperative sociali e le imprese che vogliano assumere detenuti in esecuzione penale all’interno degli istituti penitenziari. Sono 1.513, più o meno quanti nel 2017, ma di meno in termini percentuali.

Il quadro, quindi, è critico. Perché il lavoro in carcere è un’arma potente di reinserimento sociale, a pena scontata. Ed è – osserva la stessa relazione – «strategicamente fondamenta-le, anche per contenere e gestire i disagi e le tensioni proprie della condizione detentiva». Le recenti proteste, anche violente, in vari penitenziari sono un campanello d’allarme.