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Il nodo premierato . Meloni punta tutto sul referendum nel 2025. Ma se perde?

Arturo Celletti lunedì 6 novembre 2023
La sfida impossibile è evitare il referendum. È tentare in Parlamento un confronto sulla riforma costituzionale che aprirebbe le porte al premierato (il presidente del Senato ha già mandato qualche segnale) per tentare una complicatissima convergenza con pezzi delle opposizioni. La realtà è però un'altra: Giorgia Meloni sa che l'intesa non c'è e non ci sarà e ha deciso di scommettere tutto sul referendum. Perchè non vuole restare impigliata in estenuanti e inutili mediazioni parlamentari. E perchè punta tutto su una grande consultazione nel 2025. Certo è una partita rischiosa e Meloni non minimizza i rischi che si agitano dietro il referendum. Pd e Movimento 5 stelle hanno già puntato i cannoni. Se Meloni perde il referendum deve lasciare? «Se definisci questa la "madre di tutte le riforme", non puoi fischiettare e non trarne le conseguenze», dice netta Chiara Braga, capogruppo Pd alla Camera. Conte, il capo di M5S, era già stato chiaro: se governo e maggioranza non cambiano si schianteranno sul referendum. Meloni tace, il sottosegretario Mantovano no. «La premier ha fatto un discorso chiaro. Ha detto che questa riforma è uno dei punti più qualificanti del programma con il quale il centrodestra si è presentato agli elettori e ha avuto il consenso e la fiducia. Ci sono tanti altri punti del programma e il grado di apprezzamento del governo in carica da parte degli elettori sarà espresso sulla base dello sforzo e dei risultati di realizzazione dell'intero programma, quindi anche su questa voce specifica, ma non c'è un rapporto di causa effetto: se perde il referendum il governo va a casa. Non è mai stato presentato in questi termini».

Proviamo a mettere in fila i fatti. E partiamo dai numeri. Anzi prima dalle regole. Dopo l’approvazione del testo da parte del Consiglio dei ministri, ogni legge costituzionale deve passare per due letture da parte di entrambi i rami del Parlamento, a distanza di almeno tre mesi tra una lettura e l’altra, e a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Ma questo può non bastare. Se le Camere nella seconda votazione non registrano il sì con la maggioranza dei due terzi dei loro componenti, il testo (entro tre mesi dalla pubblicazione), può essere sottoposto a referendum confermativo (ma senza quorum del 50% dei votanti) se ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Insomma referendum scontato? Per evitarlo bisogna raggiungere quota 267 voti alla Camera e 136 voti al Senato. Al momento il centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia più alleati minori) ha 238 seggi a Montecitorio e 116 a Palazzo Madama, ai quali però vanno sottratti i voti dei due presidenti delle Camere (Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa) che per prassi non partecipano alle votazioni. Aggiungendo anche Italia Viva (che non ha chiuso le porte alla riforma) si sale a quota 246 alla Camera e a quota 122 al Senato. Questo significa dover conquistare 21 deputati e 14 senatori tra l’opposizione. Si potrebbe provare a convincere i parlamentari delle minoranze linguistiche e dei partiti/movimenti autonomisti (5 alla Camera e 6 al Senato) ma non si raggiungerebbe comunque quota due terzi.

La strategia è decisa. La sfida vera di Giorgia Meloni è vincere il referendum. Roberto Calderoli, uno dei ministri con più esperienza, azzarda una previsione: «Tutti si concentrano sulla figura del premier. Ma il punto è il governo di legislatura. Un governo solo che per cinque anni si confronta con l'estero, con l'Europa, con i governatori. La polpa é lì. Entro la legislatura approveremo sia il premierato sia l'Autonomia...». Ma altre riforme sono state approvate dal Parlamento e poi bocciate dai cittadini? Calderoli annuisce: «È vero. Sia la mia riforma federalista sia quella di Matteo Renzi. Ma stavolta le modifiche sono circoscritte. E semplici. Le precedenti, invece, riscrivevano parti importanti della Carta. Forse perché la materia era troppo vasta, forse perché alcuni argomenti dei 20 affrontati non erano condivisi, é andata come é andata. Ma oggi sono convinto che il popolo darà il consenso».

Torniamo a Palazzo Chigi. Giorgia Meloni ha deciso. La sfida vera per portare a casa il premierato è il referendum. E per centrare l'obiettivo non vuole sottovalutare nulla. Sente gli alleati. Sente esperti di diritto e di comunicazione. Sente i collaboratori più fidati. A cominciare dai due sottosegretari alla Presidenza del Consiglio. E già pensa a come scrivere il quesito del referendum costituzionale. L'idea è usare due concetti: popolare ed elezione diretta.