Attualità

L'intervista. Madia: «Mai più l'Italia dei veti»

Arturo Celletti ed Eugenio Fatigante martedì 12 agosto 2014
«Nessuno potrà dirci 'qui non mettete le mani'. Questo no, questo mai. Questo governo ha fatto un patto vero con il Paese e nessun settore può dirsi intoccabile». Una pausa leggera precede il nuovo messaggio: «La riforma della Pubblica amministrazione sarà una vera rivoluzione e i veti non saranno più accettati ». Marianna Madia guarda a settembre, alla ripresa dell’attività parlamentare, al dibattito che si aprirà a palazzo Madama e parla a forze politiche e sindacati: «Vorrei un contributo di arricchimento, una partecipazione larga. Mi aspetto idee dalla commissione Affari costituzionali. Non servono chiusure e posizionamenti tattici». E allora? «Allora tutti possono contribuire e il testo può ancora migliorare. Ma una sola cosa deve essere chiara: nessun rinvio  sine die, questo governo le leggi le scrive e le rende operative. Con noi non muoiono in Parlamento, con noi arrivano alla meta». È un messaggio chiaro, netto. Madia lo ripete con parole diverse: «Voglio chiudere entro dicembre, ma se ci fosse un atteggiamento costruttivo e servisse un mese in più siamo pronti». Siamo al piano nobile del ministero della Funzione Pubblica. I corridoi sono quasi deserti. C’è silenzio, ma il ministro è ancora al lavoro, solitaria: 'regala' un sorriso leggero e, legando la riforma del Senato a quella della P.A., rilancia la linea del confronto 'costruttivo'. «Si può fare opposizione a tutto, ma i no, i distinguo devono sempre servire per costruire. Al Senato ho visto posizioni in dissenso, ma con con una loro luminosità. Calderoli ha contribuito a scrivere una bella pagina di democrazia, ma i Cinque Stelle? Che hanno fatto i parlamentari di Grillo?». Una nuova pausa precede il messaggio che assomiglia a un appello: «La riforma della P.A. cambierà la vita delle persone. I Cinque Stelle non facciano l’errore che hanno fatto sul Senato, non si sottraggano al confronto. È invece ora che entrino in gioco: mi aiutino a fare meglio perchè questo Stato è anche dei loro figli». Parliamo per cento minuti con il ministro della Funzione pubblica. Dell’Italia e dell’Europa. Delle riforme fatte e di quelle da fare. E anche di Moody’s che vede grigio sul futuro dell’Italia. Marianna Madia non ci sta e lo dice scommettendo sul Paese e sul governo: «Noi crediamo nell’Italia come grande Paese dell’Europa avanzata. La stiamo tirando fuori dal pantano; la stiamo aiutando a fare uno scatto in avanti. E quando racconto le sfide del governo, lo faccio sempre declinando due parole: tenacia e speranza. Vorrei davvero che emergesse che ce la stiamo mettendo tutta e che alla fine ce la faremo». A settembre si parte in Senato con il disegno di legge delega, ma c’è un decreto già approvato. Quando partiranno davvero il dimezzamento dei permessi sindacali e la mobilità obbligata? Il decreto è servito per alcuni interventi urgenti, fra i quali quelli volti a ridurre l’eccessiva disuguaglianza che era ormai divenuta normalità. C’è bisogno di equità ed equilibrio sociale, il tetto agli stipendi è stato solo un passo: non ci può essere una così ingiusta differenza tra chi guadagna di meno e chi di più. Ma ora si va avanti. Il dimezzamento di distacchi e permessi sindacali parte dal 1° settembre, anche per allinearlo alla scuola. Andiamo avanti sin da subito anche sulla mobilità. Qui servono le tabelle di equiparazione per determinare la qualifica e la retribuzione del lavoratore che viene trasferito. Andavano già fatte da anni, ora le faremo sentendo i sindacati e la Conferenza Stato-Regioni, ma se non dovessimo trovare un accordo, andrò avanti da sola. È un nuovo colpo alla concertazione? La concertazione non può più essere un freno, non può bloccare le cose che vogliamo fare. Collaborazione e confronto sono fon- ma niente resistenze pregiudiziali. Noi siamo liberi e questa libertà ci dà un’incredibile forza per sfidare chi si oppone al cambiamento. Chi preferisce l’immobilismo lo fa perché difende quei privilegi che noi vogliamo cancellare. E per centrare l’obiettivo vogliamo svegliare quella parte del Paese addormentata. È una sfida ai sindacati? Sono loro che vogliono l’immobilismo? I sindacati non sono un corpo unico che ragiona in modo unico. Sulla riforma della Pa abbiamo fatto un mese di consultazione pubblica e abbiamo ricevuto 40mila mail, alcune anche da sindacalisti. Il sindacato stesso, mentre su alcuni temi presentava posizioni univoche, su altri ha offerto contributi articolati anche in maniera spontanea, indicandoci punti critici sui quali intervenire. Sull’articolo 18 Alfano insiste per toglierlo... Noi dobbiamo uscire da un modo conformista di affrontare i problemi, e questo vale anche per il mercato del lavoro. Non dobbiamo piantare bandierine, dobbiamo governare e farlo con coraggio che, come ha detto domenica agli scout il cardinale Bagnasco, è proprio l’opposto del conformismo. Non ha senso fare una discussione retorica art. 18 sì o no, sganciata da politiche di sviluppo e nuove tutele sociali. Il nostro vuol essere davvero un governo  di rottura. E Alfano? Questo è un governo del noi, superare il conformismo è un esercizio quotidiano per tutti. Per Alfano e per Madia. Ai precari della mia generazione non interessano i posizionamenti politici e le piccole tattiche, loro guardano il 'Jobs act' del ministro Poletti nella sua visione complessiva. Cosa succede se perdi il lavoro? Lo Stato deve prenderti per mano non in modo assistenziale, ma accompagnarti verso una nuova occupazione. Oggi non è così. Fino ad oggi non è stato così, ma domani lo sarà. Precario viene dal latino precarius, 'colui che prega'. E l’idea che un giovane debba sempre pregare per ottenere qualcosa è inaccettabile. Come è inaccettabile la mancanza di certezze dei giovani, costretti a fare i conti tutti i giorni con questa terribile insicurezza. È un obbligo voltare pagina. Lei insiste molto sui giovani. Ma non c’è anche un problema generale di 'costruzione' della carriera in Italia? Da noi si guadagna poco da giovani e tanto da 'vecchi', quale che sia il merito. È vero, esiste questo aspetto. Per questo nella Pa, che è la più grande azienda del Paese, abbiamo deciso che è il momento di invertire lo schema. La riforma della dirigenza è un aspetto centrale della riforma, vogliamo costruire un ruolo unico della dirigenza pubblica dove nessuno ha più una carriera automatica, cosa che è l’opposto di quello che serve in Italia. Ora si volta pagina? Sì, il dirigente sarà valutato e se avrà funzionato potrà crescere, altrimenti potrà anche non essere rinnovato nell’incarico. Basta, insomma, con gli automatismi legati all’anzianità; l’idea è avere una carriera che si presta anche a dei possibili saliscendi, dove merito e retribuzione si leghino ancor di più. Ma qual è il vero obiettivo della delega? Agevolare il cittadino, che non deve più piegarsi a tempi, modi e condizioni dell’amministrazione che spesso sono vessatori. Digitalizzazione e semplificazione sono nostre sfide centrali. Questi sono slogan usati anche dagli ultimi esecutivi. Qual è la differenza? Qui c’è un governo che ogni giorno ha la testa su questi temi. Qui ogni giorno si fa il punto sullo stato di avanzamento della digitalizzazione. La responsabilità dell’attuazione è politica e non amministrativa. Questa è la differenza. Vogliamo superare lo scarto fra gli annunci e la realtà. Vi posso raccontare  un aneddoto. Prego... Un precedente governo annunciò i cambi di residenza on-line. A me è successo di cambiarla: provai a farla on-line e non ci riuscii. Il risultato: dovetti andare fisicamente tre volte al municipio, un’odissea. Succederà anche a voi? Dico che abbiamo mille giorni prima di fare un bilancio. Ma fra tre anni la Pa sarà diversa, altrimenti avremo fallito. Lei come ministro o il governo? Renzi usa il 'noi': si vince o si perde insieme, in questo siamo davvero comunità e la nostra forza politica viene anche da questo. A proposito di annunci: quello di San Matteo, cioè il 21 settembre come termine per pagare alle imprese 68 miliardi di debiti arretrati della Pa, sembra già fallito, o no? Non sono sicura che si fallirà. Comunque potevamo mettere o no delle scadenze, è una strategia che abbiamo voluto. Come governo abbiamo solo da perdere, se fossimo furbi non lo faremmo. Ma serve per imprimere una marcia veloce. Prendiamo il Senato: le scadenze ci hanno aiutato a chiudere l’8 agosto. Ma ritiene più decisiva la partita da giocare in Italia, con tutte le riforme da fare, o quella in Europa, che deve concederci gli spazi per poterle realizzare queste riforme? Penso che Italia e Europa vanno insieme, e sarebbero dovute andare insieme già da tanto tempo. Essere entrati in questa crisi, nel 2008, con l’Europa ancora indietro sul piano della costruzione politica certamente non ha aiutato nessuno, noi paghiamo questo prezzo. Gli italiani della mia generazione sognavano da anni di camminare a passi veloci verso una 'cessione di sovranità' all’Europa, meglio tardi che mai. Ma ci sono vari tipi di cessione. Noi la vogliamo sulla difesa, sull’immigrazione, sulla politica estera, su quelle sociali con un 'Social compact' che affianchi il 'Fiscal compact'. Ma non vogliamo un’Europa che declassa i Paesi. Vogliamo un’Unione che sia una vera unione. Europa politica significa anche accettare di cedere quote di sovranità, che non vuol dire però farsi imporre i contenuti dell’agenda nazionale.