Attualità

Migrazioni. L'odissea di una famiglia. «Non si può morire così»

Antonio Maria Mira giovedì 22 dicembre 2022

La famiglia di Desmond con Bartolo Mercuri (a sinistra)

Emanuela aveva resistito al drammatico viaggio dal Ghana, la sua terra, alla Libia. Aveva sopportato le violenze in Libia. Era sopravvissuta alla traversata del Mediterraneo, allo scafista che voleva buttarla in mare perché lei bambina piangeva troppo, obbligando il papà Desmond a tenere la mano sulla sua bocca per tutto il viaggio di due giorni. Si era salvata dall’incendio della baraccopoli di San Ferdinando. Ma Emanuela, appena 11 anni, non è sopravvissuta alla sua malattia respiratoria, aggravata dalle malsane condizioni di vita, ma forse anche vittima di malasanità calabrese. Ed è morta l’8 dicembre, Festa dell’Immacolata, nell’ospedale di Polistena. Una storia drammatica che ci racconta il papà, «non è giusto morire a 11 anni», assieme alla moglie Iunice e agli altri quattro figli, tutti nati in Italia.

Emanuela aveva 11 anni, era sopravvissuta alla Libia e al viaggio in mare. È morta in Italia, all’ospedale di Polistena, per una malattia respiratoria. Viveva con il padre, la madre e altri quattro fratelli in una capanna malsana

Siamo a Maropati, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro, alle falde dell’Aspromonte. Siamo nel centro dell’associazione Il Cenacolo, che da 23 anni è al fianco dei più fragili del territorio, immigrati e italiani. Come ci spiega il fondatore e presidente, Bartolo Mercuri, “papà Africa” lo chiamano gli immigrati, nostra guida da tanti anni nel mondo degli sfruttati “invisibili”, «stiamo aiutando 1.700 famiglie italiane, 500 più di prima della pandemia, tutte con Isee inferiore a 6mila euro, e più di 3mila immigrati, tra i quali 120 ucraini». Tra loro la famiglia di Desmond. Parte dal Ghana nel 2013, con la bimba di appena due anni, poi i “la-ger” libici, dai quali esce solo perché è un bravo meccanico. Chiedono se c’è qualcuno capace di far ripartire l’auto di uno dei “carcerieri” e lui risponde “io!”, riesce a farla partire e in cambio lo liberano. « Mentre torno dalla mia famiglia vedo un’esplosione vicino a casa e penso che siano tutti morti. Ma per fortuna si erano salvati». Restano ancora un anno. Poi «una notte scappiamo, nascosti in un camion che trasportava cibo per i maiali». Riescono a imbarcarsi, sono in 47, la moglie è incinta, Emanuela ha paura, piange, «uno dei due scafisti la vuole buttare in mare, l’altro no. Litigano. Così ho tenuto la bocca della bambina tappata per tutto il viaggio. Per due giorni. Fino a quando ci ha salvato una nave militare italiana che ci ha portato a Catania».

Qui è nato il secondo figlio. Poi sono stati trasferiti a Lecce, dove sono rimasti un anno ed è nato il terzo figlio. Quindi un anno e mezzo in uno Sprar a Vibo Valentia, dove è nato il quarto bambino. Finito il progetto nello Sprar non trovano nessun aiuto o ospitalità, e finiscono nella terribile baraccopoli di San Ferdinando. Dove sopravvivono per due anni. «Quando li ho visti in quelle condizioni ho deciso di portarli via – racconta Bartolo –, due giorni dopo c’è stato un grande incendio, che ha bruciato tante baracche, in una è morta la giovane Becky Moses, proprio accanto alla loro che viene completamente distrutta. Per un anno li ho ospitati nella nostra sede».

Ora vivono in una casupola in campagna, col bagno fuori. Qui un anno fa è nato il quinto figlio, una femmina, Giuseppina, il nome della moglie di Bartolo. Qui si è sentita male a settembre Emanuela. «L’abbiamo portata in ospedale a Polistena ma dopo pochi giorni l’hanno dimessa – ricorda il papà –. Ma la casa dove abitiamo è troppo umida, non ce l’ha fatta. Sperava tanto di guarire in Italia…». Lo dice con pacatezza, non senti nella sua voce parole di rancore, anche se ne avrebbe diritto perché, ripete, «non si può morire così a 11 anni». Invano, ricorda Bartolo, «siamo andati dal sindaco a chiedere una casa, ce ne sono tante vuote…». Ma per una mamma, un papà e quattro bambini non c’è nulla. I bambini vanno tutti a scuola, ci andava anche Emanuela. Sono tutti raffreddati, anche se in questi giorni non fa molto freddo. Il più grandicello, oltretutto, ha problemi di comunicazione, parla male e sta facendo logoterapia. Un motivo in più per aiutarli. Desmond lavora come bracciante, ha un contratto, 40 euro al giorno, ma lavora dalle 7 alle 17.​

Se non fosse per l’aiuto di Bartolo, e dei 50 volontari del Cenacolo, non ce la farebbero. «Se non c’era “papà Africa” eravamo già partiti per la Germania o la Francia». Ma sono rimasti. Sono qui il martedì e il venerdì, con centinaia di altri esclusi, per ricevere alimenti, vestiti, medicine. E chiedono un aiuto. Una casa vera. Il rinnovo del permesso di soggiorno, che tarda ad arrivare rendendo la loro vita più complicata. E poi di avere Emanuela più vicina a loro. Infatti è stata sepolta in una frazione di Maropati, lontano dalla sua famiglia. Una famiglia senza una vera casa e senza una tomba dove pregare per la propria figlia. Chiedono poco. Chi può aiutarli? Sarebbe il più bel regalo di Natale. Nel ricordo di Emanuela, “Dio con noi”.