Attualità

Libia. I guardacoste minacciano Sea Watch di arresto in acque internazionali / AUDIO

Nello Scavo martedì 27 luglio 2021

Screenshot

Hanno minacciato di arrestare in acque internazionali l’equipaggio di soccorso. E per intimidire la “Sea Watch 3” la cosiddetta Guardia costiera libica ha avvertito di essere pronta a usare “ogni mezzo”.

E’ accaduto nel Canale di Sicilia, al di fuori delle acque territoriali e di pertinenza libiche, nella cosiddetta “Sar”, la zona di ricerca e soccorso nella quale i libici hanno competenza per gli interventi, ma non in via esclusiva. “Invece di adempiere all'obbligo di salvare vite nella zona Sar di sua competenza, la cosiddetta Guardia Costiera Libica - spiegano dal ponte di comando della nave umanitaria - minaccia di "ricorrere a tutti i mezzi disponibili" per costringerci ad andarcene”.

Nel corso delle comunicazioni la motovedetta “ha millantano di avere giurisdizione sulla zona Sar libica”, riferiscono da Sea Watch. “Ma è solo l'area in cui hanno la responsabilità di salvare vite. Acque internazionali in cui noi - ribadiscono - abbiamo il diritto di operare”.

In una delle chiamate il comando navale di Tripoli ripete che quella è “una zona economica esclusiva della Libia”. Argomento già adoperato per mitragliare e catturare in acque internazionali i pescatori siciliani.

Secondo l’equipaggio dell’organizzazione civile “questa è una gravissima violazione della Convenzione sul Diritto del Mare”. L’ennesimo abuso consentito perché vi è “un interesse europeo a proteggere la sistematica violazione del diritto internazionale marittimo da parte delle autorità libiche”.

Le minacce libiche hanno sortito la reazione dell'agenzia Onu per le migrazioni. "La zona Sar istituisce un onere di salvare vite, non un diritto esclusivo di intervento. Sono acque internazionali, non libiche", ha ribadito il portavoce Flavio Di Giacomo.. "Da sottolineare - aggiunge - che una zona Sar richiede anche un porto sicuro di sbarco e la #Libia non lo è".

Tripoli ha un conto aperto con Sea Watch già da molto tempo. Soprattutto perché l’organizzazione anche grazie al suo aereo di sorveglianza ha permesso di documentare in presa diretta le azioni da pirateria di guardacoste equipaggiati, addestrati e finanziati principalmente dall’Italia, che a metà luglio ha aumentato e rinnovato gli stanziamenti per i guardacoste tripolini.

La procura di Agrigento ha aperto una inchiesta dopo l’esposto dei legali di Sea Watch quando una motovedetta ha tentato di speronare un barcone di migranti su cui ha anche sparato nel tentativo di far esplodere e bloccare i motori. L’indagine ora attende l’ok del ministro della Giustizia Marta Cartabia a cui è stato chiesta l’autorizzazione a svolgere attività di cooperazione internazionale di polizia per ricostruire l’accaduto ed individuare le responsabilità. Circostanza che a Tripoli hanno preso molto male.

Fino ad ora le autorità del Paese nordafricano non hanno mai cooperato nelle inchieste per le violazioni dei diritti umani, offrendo così un riparo a trafficanti di uomini e torturatori. Lo scorso anno proprio un’inchiesta di Agrigento aveva permesso di identificare e far condannare a 20 anni di carcere ciascuno tre torturatori del campo di prigionia ufficiale di Zawyah, diretto dal clan al-Nasr. I tre erano stati soccorsi proprio da Sea Watch poiché si erano camuffati tra i migranti in fuga, ma sono stati poi identificati e arrestati dalla squadra mobile della polizia di Agrigento.