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Le proprietà. Aziende invecchiate con il capo: Mediaset rischia di diventare “preda”

Pietro Saccò martedì 13 giugno 2023

Così abituati a parlare di “impero” di Silvio Berlusconi rischiamo di non renderci conto che ciò che resta dello straordinario percorso imprenditoriale del Cavaliere è un insieme di aziende fragili, invecchiate con il loro padrone, adatte a un tempo che non è il nostro. Se di impero si tratta, è da tempo in decadenza.

Ci sono pezzi che se ne sono andati per la loro strada. Su tutti il Milan. Ceduto nel 2016, dopo trentun anni densi di trionfi, a un oscuro gruppo di investitori cinesi, quindi rilevato da un fondo speculativo newyorchese che ai cinesi aveva fatto credito e infine venduto (a una cifra record) a un altro fondo americano, stavolta di un ex manager Goldman Sachs. Il Milan si è allontanato da Berlusconi per entrare in una nuova epoca. Quella delle squadre di calcio gestite come asset di Wall Street che sfidano i club mantenuti dagli sceicchi, gli unici (ora che gli oligarchi russi sono fuori gioco) che sembrano in grado di sostenere le perdite economiche necessarie a mantenere un team ad altissimi livelli. Nel 2016 l’età dell’oro della Serie A era finita da un po’, e uno degli uomini più ricchi d’Italia ha dovuto accontentarsi, con meno pretese, del Monza, che è comunque un lusso costoso: ha chiuso il 2022 con 65 milioni di euro di perdite su 32,7 milioni di ricavi.

Un altro pezzo dell’impero che è andato perduto è il giornalismo stampato quotidiano: con la cessione del Giornale agli Angelucci, annunciata senza troppa enfasi a fine aprile, la famiglia del Cavaliere ha chiuso con i giornali dopo quarantasei anni, di cui quasi venti di convivenza con Indro Montanelli. Cinque anni fa Mondadori aveva venduto lo storico settimanale Panorama. Il gruppo guidato da Marina Berlusconi resta molto forte nell’editoria libraria e digitale – ha ancora riviste come Tv Sorrisi e Canzoni, Chi, Focus – ma anche qui sono evidenti i segnali della fine di un’epoca di cui Berlusconi è stato grande protagonista. Ha “inventato” la tv commerciale in Italia, avviando così un’incredibile espansione del mercato pubblicitario che ha fatto la fortuna dei giornali dagli anni ‘80 fino alla fine del secolo scorso. Fasti delle rotative che appartengono a una fase storica ampiamente esaurita. Oggi Mondadori capitalizza circa mezzo miliardo di euro, non abbastanza per trovare posto nel principale listino di Piazza Affari, il Ftse Mib: è relegata nel Ftse Italia Mid Cap, assieme ad altre aziende di taglia media.

È in questo listino “minore” della Borsa di Milano che trova posto anche Mediaset, che ora si chiama Media for Europe (Mfe), ha sede in Olanda ed è il pezzo più prezioso dell’impero dei Berlusconi. C’è molto fermento alle azioni di Mfe, che sono di due tipi: quelle di classe A, che danno diritto a un solo voto in assemblea, e quelle di classe B, che hanno dieci diritti di voto. Ieri le prime hanno guadagnato il 13,4%, le seconde il 7,4%. Ma nonostante i rialzi degli ultimi giorni l’intera Mfe vale meno di 2 miliardi di euro e ne fattura 2,8. È pochissimo rispetto ai suoi nuovi rivali, giganti come Amazon, Disney, Netflix o Paramount (il cui marchio è apparso sulla maglia dell’Inter nella finale di Champions League). La sfida nel settore dell’intrattenimento è diventata globale e si gioca sullo streaming, che è un business diverso da quello della televisione generalista (perché guadagna con gli abbonamenti più che con la pubblicità) ma ha lo stesso obiettivo: l’attenzione dei telespettatori. I bambini cresciuti con Bim Bum Bam sono adulti, i loro figli faticano a capire il senso del concetto di palinsesto, per la televisione generalista il tempo sembra contato. Non bisogna però sottovalutare il peso politico interno delle reti Mediaset, ampiamente schierate con il centrodestra e da questo “tutelate”. Mfe deve comunque crescere rapidamente, sta provando a creare un polo europeo con la tedesca ProSiebenSat (ne controlla il 29,9%) e trovare spazi in Spagna. Solo conquistando una dimensione considerevole si può resistere in un mercato globale. Ma è chiaro che se i figli del Cavaliere non saranno compatti nel difendere il controllo, Mediaset rischia di essere rapidamente “mangiata” da qualche gruppo straniero (e questa ipotesi spiega la corsa del titolo). Ci ha già provato negli anni passati Vivendi, che non è nemmeno un colosso ma è comunque grande il triplo di lei ed è azionista con il 4,4% dei titoli.

Pier Silvio Berlusconi ieri ha scritto ai dipendenti una lettera per ricordare l’affetto che il padre aveva per loro, e quindi per esortarli ad andare avanti: «Dobbiamo costruire un gruppo ancora più forte e ancora più vivo. Lo dobbiamo fare per Mediaset. Lo dobbiamo fare per tutti noi. Ma soprattutto lo vogliamo fare per lui».

Nulla dell’impero economico di Berlusconi sembra al sicuro senza di lui. Può essere stata colpa della politica, a cui a un certo punto si è dato interamente, o di una certa filosofia del “ghe pensi mi” che impedisce di affidarsi davvero agli altri, oppure della convinzione della propria insostituibilità, così diffusa tra gli uomini di successo. Anche gli infiniti processi hanno sicuramente pesato. Ma qualcosa ha evidentemente impedito al Cavaliere di avere quella capacità di andare oltre sé stesso che hanno avuto invece altri grandi imprenditori scomparsi negli ultimi anni. Gente come Michele Ferrero o Leonardo Del Vecchio, altri self made men che hanno lavorato fino all’ultimo in azienda e lasciato in eredità imprese ben più grandi e robuste di quelle dell’ex presidente del Consiglio.