Attualità

La storia. Laleh, sopravvissuta a tutto. Ora è in Italia per rinascere

Lucia Capuzzi mercoledì 30 novembre 2022

Dagli occhi azzurro ghiaccio non scende una lacrima. Laleh – il nome è di fantasia, per ragioni di sicurezza - non sa più piangere. Ha smesso molti anni fa. Quando, d’un tratto, a 12 anni, per decisione indiscutibile dei genitori, s’è ritrovata sposata a un uomo dell’età di suo padre. Quando il marito, tossicomane e violento, l’ha picchiata la prima volta, il giorno stesso delle nozze. Quando, dopo la nascita di ognuno dei tre figli, stava sveglia la notte per l’ansia che anche loro subissero la medesima sorte. Non ricorda il giorno esatto. Laleh sa, però, che, a un certo punto, le sue pupille si sono seccate. Non sa se torneranno a inumidirsi, stavolta di gioia, ora che è in Italia grazie all’ultimo corridoio umanitario, risultato di un protocollo d'intesa tra i ministeri degli Esteri e degli Interni con la Chiesa cattolica, le Chiese evangeliche, Sant'Egidio, Caritas, Arci, Inmp e le agenzie delle Nazioni Unite Oim e Acnur-Unhcr.

A offrirle questa possibilità e seguirla nelle complesse pratiche per l’espatrio è stata Nove onlus, organizzazione impegnata da oltre dieci anni in Afghanistan e specializzata nella difesa dei più vulnerabili, dunque le donne e le bambine. Ne ha incontrate ed aiutate tantissime, prima e dopo il ritorno al potere dei taleban. Laleh, tuttavia, riunisce nella sua storia, tutte le varie forme di violenze subite dalle afghane: sessuale, economica, fisica, psicologica, poitica. Eppure questa donna non si sente una vittima, come racconta Livia Maurizi, coordinatrice dei progetti di Nove, bensì una sopravvissuta. Da quando le si sono seccate le lacrime, Laleh ha cominciato a sentire una forza più potente di quella di gravità che, invece di tenerla in piedi, l’ha spinta ad andare avanti. E’ stata questa forza a farla imparare a leggere, da sola e di nascosto, con il terrore che il marito la scoprisse e la riempisse di botte. A farla presentare al comando delle forze speciali, nonostante il divieto di quest’ultimo, per trovare un impiego con cui nutrire i suoi bambini. Il loro padre non riusciva a tenersi un solo lavoro. Colpa dell’oppio, i cui scarti, fumati attraverso una pipa logora, gli annebbiavano cervello e rallentavano i movimenti, dandogli, però, gli unici momenti di pace tossica.

Per anni, la giovane – ora trentenne - ha accompagnato i militari afghani nelle operazioni più complesse. Spesso, dopo giornate estenuanti, a casa la attendevano gli insulti, gli schiaffi, i calci del marito. Per quanti nascondigli trovasse, inoltre, questo riusciva sempre a trovare lo stipendio, trasformando ogni centesimo in oppio. E’ stato l’ennesimo furto a scatenare, nel 2017, il litigio che ha mandato Laleh in ospedale, con il naso e varie costole rotte e la determinazione a lasciare il suo aguzzino. Non per se ma per i figli, soprattutto le figlie: voleva che avessero una vita differente. Non è stato, però, facile.

Prima, l’uomo è fuggito in Iran per non concederle il divorzio – i magistrati richiedono la presenza – poi è tornato in patria deciso a vendicarsi. Non riuscendo a trovare Laleh, ha assassinato il padre e il fratello. L’arresto e la condanna non hanno implicato la fine dell’incubo. Perché meno di un anno dopo il verdetto, i taleban hanno riconquistato Kabul e aperto le carceri, lasciando in libertà i detenuti. “E’ stato allora che abbiamo incontrato Laleh: era costretta a spostarsi di casa in casa con i figli per sfuggire alla caccia del marito. Non poteva lavorare. Per sopravvivere l’abbiamo fatta entrare nel programma di emergenza Dignity, sostenuto dal trust “Nel nome della donna”, che garantisce tutto il necessario per un vita dignitosa – sottolinea Livia Maurizi -. Restare in Afghanistan era, comunque, troppo pericoloso. L’uomo era sulle sue tracce. Il corridoio è stata la sua possibilità di salvezza. Senza la straordinaria forza, però, non sarebbe riuscita a coglierla”. La stessa forza con cui ora è pronta a costruire una nuova vita, insieme ai propri figli.