Attualità

Storie di «resistenza». I centri antiviolenza: grida nel silenzio

Matteo Marcelli mercoledì 25 novembre 2020

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Prima un silenzio assordante, che per qualche giorno ha nascosto il grido d’aiuto di centinaia di vittime, spezzando il filo che le legava a un progetto di vita lontano dai maltrattamenti. Poi l’aumento delle richieste di ascolto e la frustrazione per la difficoltà ad accoglierle tutte. Sono gli “effetti collaterali” del lockdown sul lavoro di chi lotta contro gli abusi di genere, già di per sé afflitto da diverse criticità strutturali. Oggi Dire, la rete nazionale che riunisce più di 80 associazioni e oltre 100 strutture per la protezione delle vittime di maltrattamenti, presenterà i nuovi dati – i primi dall’inizio della pandemia – in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

La rilevazione certifica un aumento generalizzato delle persone che hanno avuto bisogno di supporto, ma tra queste il numero di coloro che si sono rivolte a un centro antiviolenza della rete per la prima volta è calato vistosamente, segno che per molte donne restare a casa ha significato resistere e sopportare la violenza. I numeri però, da soli, non rendono l’idea di quello che il lockdown ha significato per chi combatte ogni giorno contro gli abusi, ma le parole degli operatori restituiscono un quadro abbastanza chiaro di quello che è realmente accaduto con le misure di contenimento del contagio.

«Avendo il maltrattante in casa, per alcune donne era davvero complesso trovare un momento per chiamarci. Questo non solo per le nuove vittime, ma anche per quelle già in carico – spiega Giorgia Fontanella, presidente della cooperativa sociale Iside che gestisce tre centri tra le province di Venezia e Treviso –. Tutti i percorsi di fuoriuscita hanno subito un rallentamento, mentre altri sono esplosi. Magari quelle che prima sembravano situazioni sotto controllo, con la pressione del lockdown, sono diventate critiche e ci è capitato di dover allontanare da casa alcune persone in piena chiusura».

È il caso di Myrlande ad esempio (nome di fantasia), una donna di origine straniera assistita da uno dei centri della cooperativa. Un percorso di allontanamento complesso, iniziato circa un anno e mezzo fa e reso ancor più difficile dalla mancanza di autonomia economica e dalla presenza di due bambini. Myrlande riusciva a contattare con una certa continuità il centro di riferimento fin quando il marito ha lavorato fuori di casa. Poi la quarantena obbligata ha cambiato le cose.

«Questo ha reso difficile proseguire il progetto di tutela. È chiaro che con il lockdownlo spazio diventa soffocante e le dinamiche di violenza si acuiscono – continua Fontanella –. I percorsi sono lunghi e vanno costruiti in modo tale che la donna abbia un’alternativa su cui fare affidamento. Altrimenti davanti a loro si apre un baratro di incertezza che non credono di poter affrontare. Il maltrattante spesso le minaccia, prospettando la possibilità che i servizi sociali sottraggano loro i figli e se non è possibile spiegargli che è falso finiscono per crederci».

Le circostanze hanno imposto creatività ai centri Dire, che hanno lanciato una campagna via Internet per andare incontro alle vittime con suggerimenti pratici e messaggi semplici: «Chiamaci quando porti fuori il cane », «contattaci mentre vai a buttare la spazzatura» e via dicendo. Ma anche questo non è stato sufficiente a garantire sicurezza a tutte. «Ci hanno chiamato donne che non potevano neanche andare a casa delle sorelle perché residenti in altri Comuni, altre che non sono potute essere accolte nelle case rifugio perché prive dei requisiti di sicurezza, come la possibilità di fare un tampone – racconta Chiara Gravina, rappresentante legale del centro antiviolenza di Cosenza –. Il lavoro è cambiato radicalmente. Anche adesso, come zona rossa, andiamo avanti solo con l’ascolto in remoto». Durante i mesi di chiusura obbligata, al centro in cui presta servizio Gravina, una donna ha chiamato alle due di notte. Anche lei straniera, sposata e con figli, ha raccontato di essersi allontanata da casa a piedi lasciando i bambini con il padre e portando con sè solo un paio di buste con pochi effetti personali.

«Quella notte c’era un tempo terribile, pioveva a dirotto. La nostra operatrice è riuscita a seguire la vittima per telefono solo per un po’, dopodiche ne abbiamo perso le tracce». La donna è poi riuscita a raggiungere la questura di Cosenza e a sporgere denuncia. La polizia si è quindi rivolta allo stesso centro per chiedere la disponibilità all’accoglienza. «A quel punto abbiamo constatato che nessuna delle nostre strutture era in grado di accoglierla – conclude Gravina –. Ora non sappiamo che iter abbia seguito, perché una volta presa in carico dalle forze dell’ordine, non non è più una nostra competenza. Ma il senso di impotenza è stato devastante».