Attualità

Sentenza della Cassazione. La pausa caffé? Va bene, ma a proprio rischio

Fulvio Fulvi martedì 9 novembre 2021

Nessun indennizzo e nemmeno l’invalidità spettano al lavoratore che, durante l’orario d’ufficio, esce per andare al bar e nel frattempo incappa in un infortunio. E non c’è permesso del capo che tenga. Lo ha stabilito la Cassazione accogliendo il ricorso dell’Inail contro una dipendente della Procura di Firenze. La donna, Rosanna B., aveva chiesto infatti – e ottenuto in primo e secondo grado – un risarcimento in denaro, e il riconoscimento di una menomazione permanente per essersi fratturata un polso cadendo per strada mentre, con regolare autorizzazione del capo-ufficio, si recava a consumare la solita “tazzina” in un pubblico esercizio situato vicino al palazzo in cui lavorava. Secondo la Corte Suprema, il “coffee-break” – pur non essendo messo in discussione per la sua funzione sociale – non rappresenta una esigenza impellente e legata al lavoro ma “soltanto” una libera scelta. Si tratta, spiegano i giudici nella dettagliata sentenza (arrivata 21 anni dopo il fatto) «di un rischio assunto volontariamente dalla lavoratrice, non potendo ravvisarsi nell’esigenza di prendere un caffé i caratteri del necessario bisogno fisiologico che avrebbero consentito di mantenere la stretta connessione con l’attività lavorativa».

L’italica conquista della “pausa caffé”, occasione di scambio e socializzazione tra colleghi, tollerata ormai da quasi tutte le categorie (è prevista e disciplinata dalla legge numero 66 del 2003) e ritenuta, sempre dalla Cassazione in una precedente sentenza, «momento necessario di ristoro» (purché di breve durata), ora potrebbe diventare per molti un incubo, un assillo, un pensiero che si aggiunge alle normali mansioni quotidiane. Un problema, almeno per quelli che non hanno un bar interno al posto di lavoro o che non amano prendere il caffé della “macchinetta”. L’impiegata, dopo la malaugurata caduta del luglio 2010, aveva ottenuto dal Tribunale e poi anche dalla Corte d’Appello del capoluogo toscano il riconoscimento del diritto all’indennità di malattia assoluta temporanea e l’indennizzo per danno permanente (nella misura del 10%) per l’incidente accadutole nel tragitto verso il bar, ritenuto da quei togati un «infortunio sul lavoro». Ora però non solo non avrà un quattrino dall’Inail ma è stata condannata a pagare 5.300 euro di spese legali e di giustizia. La tutela assicurativa le è stata negata perché, sottolineano gli “ermellini”, ha affrontato «un rischio scaturito da una scelta arbitraria» e «mosso da impulsi e per soddisfare esigenze personali» creando e affrontando volutamente una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa».

«Quando l’infortunio si verifica al di fuori, dal punto di vista spazio-temporale, della materiale attività di lavoro e delle vere e proprie prestazioni lavorative (si verifica cioè anteriormente o successivamente a queste, o durante una “pausa”), la ravvisabilità dell’occasione di lavoro – conclude il verdetto – è rigorosamente condizionata alla esistenza di circostanze che non facciano venire meno la riconduciubilità eziologica al lavoro e viceversa la facciano rientrare nell’ambito dell’attività lavorativa» o di tutto ciò «che ad essa è connesso o accessorio in virtù di un collegamento non del tutto marginale». Insomma, caffé sì, fuori dall’ufficio, ma sempre con molta prudenza e... a proprio esclusivo rischio. E più la pausa è corta, meglio è.