Attualità

L'ITALIA CHE CAMBIA. La montagna spopolata salvata dagli immigrati

Paolo Ferrario domenica 12 dicembre 2010
Quando i primi arrivarono in paese, la notizia fece in un baleno il giro delle case e in molti pensarono “Mamma li turchi”. Come fossero riusciti a trovare la strada per la valle era un mistero per i montanari, che fino a quel momento avevano visto gli immigrati soltanto alla televisione. I primi tempi non furono facili e non mancarono occasioni di scontro con i nuovi venuti. Ora, però, dopo alcuni anni, non sono pochi coloro che pensano che proprio i “turchi” salveranno la comunità dall’estinzione e l’intera valle dallo spopolamento. Quello dei migranti stranieri che scelgono di stabilirsi in piccoli centri delle Alpi italiane è un fenomeno ancora abbastanza recente, che sociologi e antropologi hanno appena cominciato ad indagare. Di certo rappresentano una piccola minoranza, appena qualche migliaio dei circa 5 milioni di immigrati residenti nel nostro Paese (secondo l’ultimo rapporto Caritas-Migrantes), ma il loro numero sta aumentando anche per effetto della crisi economica, che spinge tante famiglie a lasciare le città, dove il costo della vita è più alto, alla volta di realtà più piccole in periferia, dove i prezzi delle case e della vita in generale sono senz’altro più contenuti.Un’indagine in profondità sulle comunità immigrate residenti in alcuni comuni montani delle Alpi piemontesi, intitolata appunto “Mamma li turchi” e pubblicata in italiano e occitano, è stata recentemente compiuta da Maurizio Dematteis, esperto di temi sociali e ambientali dei territori alpini, per conto dell’Associazione di promozione della lingua e cultura occitana Chambra d’Oc di Roccabruna (Cuneo) e di Paralleli, istituto euromediterraneo del nord ovest con sede a Torino, di cui lo stesso Dematteis è direttore. Naturalmente, la presenza di immigrati extracomunitari non è osservabile soltanto nelle vallate alpine occidentali del Piemonte, ma anche in quelle centrali a nord di Milano (Varesotto, Lecchese, Valtellina e Valchiavenna) e in quelle del Triveneto a nord est, nonchè sull’Appennino tosco-emiliano, dove si è stabilita da qualche anno una comunità bosniaca abbastanza folta, arrivata ai tempi della guerra dei Balcani.«Quando le prime avanguardie giunsero nei paesi di montagna – spiega Dematteis – come abbiamo potuto appurare attraverso le interviste ai residenti in valle da generazioni, la convivenza con gli “autoctoni” non fu affatto semplice e non mancarono nemmeno le “scintille”, almeno verbali, quando le due culture vennero in contatto. Oggi, dopo alcuni anni di presenza continuativa dei migranti, la situazione è molto migliorata e gli stranieri intervistati per la ricerca, hanno raccontato che l’integrazione in montagna è avvenuta più rapidamente rispetto a precedenti esperienze cittadine».Soprattutto, i romeni di Pragelato, piuttosto che gli albanesi al Sestriere, gli ivoriani a Dronero o i turchi (quelli veri) a Pietrabruna - soltanto per citare alcune delle tredici comunità immigrate intervistate da Dematteis - hanno permesso a paesi lentamente ma inesorabilmente destinati al declino e, forse, anche all’estinzione, a causa dello spopolamento delle montagne, di riprendere a crescere mantenendo sul territorio servizi preziosi per la popolazione.«A Pragelato e a Pietrabruna – ricorda Dematteis – le scuole elementari, destinate alla chiusura per mancanza di iscrizioni, hanno invece trovato nei figli degli immigrati romeni e turchi, tanti nuovi alunni che ne giustificavano la presenza. E lo stesso vale anche per altri servizi come le Poste o i piccoli negozi di vicinato. Inoltre, lo abbiamo osservato in Valsusa, gli immigrati magrebini hanno a loro volta aperto dei negozi di prodotti “etnici”, contribuendo alla “contaminazione” positiva tra culture diverse».La dice lunga, a questo riguardo, la presenza, da cinque anni, di un bar gestito da una famiglia albanese al Sestriere, località sciistica tra le più rinomate della zona. Non solo. Come spiega Dematteis, la presenza della comunità albanese, costituita da 47 persone tutte residenti e regolarmente registrate in Comune, è talmente radicata che ormai i nuovi immigrati dal Paese delle aquile non passano più per Torino, come fu per i primi venuti, ma salgono direttamente ai duemila metri del colle a cercare casa.«Le ragioni di questo “effetto rimbalzo” dalla città alle vallate alpine – osserva ancora Dematteis – risiedono anche nella crisi economica, che ha certamente accelerato questo processo. In città, infatti, la vita è più cara, gli affitti sono più alti e anche il lavoro scarseggia. Da questo punto di vista ci sono senz’altro più occasioni nei paesi di media e bassa valle, dove anche l’accesso ai servizi è meno faticoso. Praticamente tutti i testimoni intervistati, con precedenti esperienze abitative in città, concordano nel dire che la vita familiare nelle valli alpine è migliorata».Negli anni sono anche cresciuti i legami tra i valligiani e le terre d’origine dei migranti. Un esempio su tutti, quello di Borgo San Dalmazzo, nel Cuneese, dove vive una folta comunità di Santo Domingo. Il paese si è gemellato con la città caraibica di La Vega - dove oltre due secoli fa operò il missionario francescano di Borgo padre Fantino - sostenendo un progetto di adozione a distanza per aiutare l’orfanotrofio, fondato dal sacerdote, che oggi ospita una trentina di bambini. Piccoli “turchi” che ai piedi delle Alpi hanno trovato tanti nuovi amici.