Attualità

IL CASO. «La mia vita fuorilegge salvata dalla maternità»

Paolo Viana domenica 20 dicembre 2009
Una perdita, in fondo, è solo un filo di sangue. Routine per un pronto soccorso - «vada a casa e riposi» - ma Barbara trema. Si regge al mancorrente. Pochi passi e ci fermiamo al primo bar, i camionisti hanno scaricato i peperoni all’Ortomercato di Milano e ora puntano verso Genova. Una carezza furtiva al ventre, una gravidanza di sei mesi, uno strano matrimonio e un compagno che alla bella notizia ha cambiato la serratura di casa. Ragazza madre senza essere stata una ragazza: «le mie compagne di classe abbassavano lo sguardo mentre passavo». Le si inumidiscono ancora gli occhi, chiari e induriti come le cicatrici; tante, si confondono ai tatuaggi. Sceglie il tavolino contro la parete, poi ci ride su. «Non ho paura di nessuno se non per lei, la piccola. Ma basta una ferita a ricordarmi quel mattino». Quando i grumi la guardavano da vicino, rannicchiata sul pavimento, dove il dolore mescolava sangue, lacrime, quant’altro. «Prima dello stupro non ho mai avuto questa reazione, e dire che ne ho visti con la faccia rotta perché facevano i furbi». Il distacco irrita, tant’è ostentato, marchio di fabbrica di una vita border line, notti brave a Milano, le strade dello spaccio, i locali di viale Bligny, i Navigli sbarluccicanti e l’Oltrepo delle ville e delle Ferrari. «Anche lo zio ne aveva una»: sovente, le porte della mala si spalancano in famiglia. Anni prima, un’altra zia, la Rosa del Giambellino, aveva tirato su con gli stessi metodi il bel René: «Renato Vallanzasca. Mi pare che si conoscessero, lui e lo zio. Ma sono storie vecchie. Per 22 anni ho vissuto la vita sbagliata, al suo fianco. Lo seguivo, lo veneravo, lo zio mi usava come palo, per portare messaggi, incontrare persone ricche e potenti». Ti prostituivi? «Mai». Droga? «Cocaina, a fiumi. Lo zio faceva affari tra la Calabria e la Croazia, a quanto ho capito». Secondo gli inquirenti, Barbara aveva capito ben più di quello che ha rivelato, quando si è presentata al commissariato vogherese per essere arrestata: «Non ce la facevo più a vivere di notte, a vestire Prada e Moschino, a bere, tirare di coca, tra pestaggi e intimidazioni contro chi non voleva pagare la roba. E io al mattino ero niente di niente: le mie compagne di classe, al solo vedermi, cambiavano marciapiede». La mano cerca lei: «La sento crescere e mi rendo conto di essere una donna diversa, voglio che lei lo sia, un giorno. Ho paura per lei, sono felice per lei e lavoro per lei. Faccio l’imbianchina, lavoro pesante, per una come me: perché Voghera non dimentica». Adesso Barbara va a Milano per imbiancare pareti e se entra in un night è per ristrutturarlo: «Ma i clienti appena sanno chi sono mi mandano via, dicono che non vogliono noie». Ha tentato di mettere a frutto il diploma di infermiera: solo porte chiuse. È tornata a vivere dai genitori. Giura di aver smesso con le piste ma intercetta il mio sguardo, che è poi il medesimo dei vogheresi. «Quando lo dico mi guardano tutti con il tuo scetticismo, ma gli esami del sangue non mentono: leggili anche tu, sono pulita». Tira fuori dalla borsa un mazzo di fogli stropicciati, le stesse analisi che ha mostrato ai responsabili dell’Associazione Giovanni XXIII: «Loro non mi hanno giudicata, mi hanno aiutata ad avere coraggio. Vivo del mio lavoro, cercavo solo qualcuno che mi dicesse che faccio bene a tenerlo, questo figlio». L’ecografo dice femmina: «la chiamerò Carol» precisa di getto e tu pensi alla faccia che farà il parroco; pensi che potrà sempre mimetizzarsi tra le tante Carolina di queste campagne; pensi che comunque nell’Italia delle Noemi poteva andarle anche peggio. Anche nel nome, però, c’è un indizio di questa rinascita. «La chiamerò Carol – m’illumina Barbara – perché se era un maschietto si sarebbe chiamato Giovanni Paolo». Finalmente trovo il coraggio di metterle sotto gli occhi una foto di don Benzi: «Crediamo nello stesso Dio, non dico di essere stata una buona cristiana ma so di volere il meglio per la mia bambina e per il nostro futuro. Ho chiesto aiuto al Signore nei momenti peggiori, anche quel mattino, e quest’aiuto è arrivato». Quel mattino erano in due e sono entrati in casa con lo spaccadenti tra le dita. Il ricordo strizza gli occhi: «Mi hanno detto "vai a raccontare anche questo". Con il tempo ho dimenticato il dolore fisico. Del resto, non posso mica passare tutta la vita a odiare quei due». Del resto, uno degli stupratori è sparito nel nulla.«Il mio incubo peggiore – confida – è la vita che ho sprecato. Non cerco alibi, è avvenuto anche per volontà mia. Ho iniziato a lavorare per lo zio che avevo sei anni: è entrato nella mia cameretta, mi ha messo una valigia sotto il letto e mi ha detto: non alzarti neanche per fare pipì. Andandosene, mi ha lasciato una mancia di cinquantamila lire: era il 1982, giocavo ancora con le bambole. Poche settimane prima di morire, mi ha chiesto scusa di ciò che aveva fatto di me. Non so se sono riuscita a perdonarlo».A trentatre anni, Barbara è una donna che rinasce scegliendo di dare la vita. Inquieta e incerta, sola contro tutti, assistita dalla Papa Giovanni e protetta da quei genitori ai quali aveva voltato le spalle. «Ho voluto raccontare questa storia perché so cosa sia la violenza e forse posso convincere qualche donna incinta, indecisa e stordita dalla paura, che si può credere nella vita anche quando il passato ti assedia. Ne ho parlato con un amico che fa il prete e ho deciso di raccontare la mia storia a Natale, perchè è oggi che rinasce la speranza. La mia è che il passato sia veramente passato». Per strapparselo via, tutto quel suo passato pesante, Barbara ha dovuto implorare i poliziotti, ha rivelato dove si trovava la roba ed è quasi impazzita di fronte ai loro sguardi increduli. «La prima volta è stata cacciata in malo modo. È tornata all’indomani e pian piano si è conquistata la loro fiducia» spiega oggi Maurizio Sorisi, l’avvocato che l’ha assistita per anni. Fu sua una delle prime istanze di ricusazione di un giudice in base alla legge Cirami: «Era appena entrata in vigore la legge - ricostruisce - e abbiamo scoperto che la possibilità di ricusazione era molto più restrittiva, tant’è che la Cassazione ce l’ha negata». Nell’estate del ’99 Barbara si è trovata ad essere la principale confidente degli inquirenti nell’operazione Intreccio: decine di inquisiti, altrettante condanne, un giro di coca e complicità su cui la stampa locale ha versato fiumi d’inchiostro. Si sa, alla casalinga di Voghera certe storie torbide piacciono alquanto. Che poi a vuotare il sacco fosse una delle regine delle notti dell’Oltrepo bastava a far tremare la buona società delle cascine e degli studi professionali, quella dello shopping da Melchionni e del crodino in piazza Duomo... «Racconterò tutto a mia figlia - giura -, senza tacere nulla e il racconto finirà con l’assoluzione, perché alla fine il giudice mi ha assolto». A non essersi assolta è lei: «Negli anni in cui facevo quella vita - racconta - un mio amico fu stroncato da un’overdose. Ho la sensazione di averlo ucciso anch’io. Ma alla mia bimba insegnerò che, se ci tieni davvero, puoi cambiare». Lo sguardo è diventato quello di una mamma.